L’inverno del 1935 fu durissimo. L’onda lunga dello sterminio dei kulaki, e la conseguente crisi agricola, ancora si faceva sentire. Le derrate alimentari erano razionate, la gente viveva tra paura e angoscia. Non era questo che si aspettava, lui che era andato a Mosca per dare il suo contributo alla causa della rivoluzione, insegnando “strategie militari” all’accademia leninista internazionale. Non seppe tacere, così il suo incarico venne presto revocato, lasciandolo senza buoni per acquistare i beni alimentari e senza lo stipendio per pagare l’affitto. Guido Picelli sperimentò allora sulla sua pelle l’amara verità del comunismo.
Venne assegnato a una fabbrica di cuscinetti a sfera, lontano dalla politica. Emarginato e malato, scrisse a Togliatti, il “compagno Ercole”, il quale non poté o non volle aiutarlo, ed anzi gli intimò di rientrare in fabbrica. Qui venne processato dai compagni operai con l’accusa di essere un borghese. Un processo farsa che solitamente fungeva da anticamera al gulag, come in effetti accadde a Dante Corneli, altro antifascista emigrato in URSS, amico di Picelli. I destini di Guido Picelli sembravano segnati.
Il pacifista combattente
La vita di Picelli è di quelle che si leggono nei romanzi. Figlio di operai emiliani, scappò con una compagnia di attori finché non lo colse la Prima guerra mondiale. Aveva 19 anni. Aderì al partito socialista maturando posizioni pacifiste che lo portarono ad arruolarsi nella Croce Rossa italiana, guadagnandosi due medaglie al valor militare. Dopo la guerra fondò gli “Arditi del Popolo“, organizzazione di autodifesa nata per fronteggiare le squadre fasciste che, dall’inizio degli anni Venti, mettevano a ferro e fuoco l’Italia settentrionale. Arrestato, venne eletto alla Camera dei Deputati tra le fila del partito socialista, e quindi liberato. Sulla scheda di accettazione, alla voce “impieghi all’epoca dell’elezione”, scrisse beffardo: “Carcerato“.
La battaglia di Parma
Arriviamo così al 1922, pochi mesi prima della Marcia su Roma un battaglione di fascisti converge su Parma per punire la città del suo antifascismo. I soldati del Regio esercito smobilitano. La via di Parma è aperta per i 10mila uomini guidati da Italo Balbo. Ma Picelli è lì con i suoi “arditi”, circa 300 persone male armate di varia estrazione politica (anarchici, socialisti, comunisti, popolari e repubblicani). Costruisce difese, fortifica rioni, reticola strade e viale, organizza barricate, ma soprattutto mobilita l’intera popolazione, donne comprese. La battaglia durerà dall’1 al 6 agosto, quando i fascisti si ritireranno, dimostrando che il fascismo – volendo – si poteva fermare.
Il comunismo e la fuga in URSS
Nel 1926, dopo che scampò a un attentato, venne arrestato e mandato al confino da un Mussolini ormai padrone. Dopo cinque anni di prigionia, durante i quali si avvicinò al PCI, nel 1932 riuscì a fuggire in Francia e da lì in URSS. Quando giunse a Mosca era ormai un antifascista maturo, dalle notevoli doti militari e organizzative, fedele alla causa del comunismo internazionale. L’incontro con la patria del comunismo realizzato gli farà cambiare idea. In Unione Sovietica comprese la sudditanza dei partiti comunisti europei nei confronti di Mosca e di un uomo, Stalin, i cui tratti omicidi e criminali erano ormai evidenti.
A salvarlo dal gulag fu l’intervento di un amico, Dimitri Manuilski, che conosceva Picelli come grande combattente antifascista, il quale accantonò la pratica per l’internamento e ne favorì l’uscita dal paese. Picelli aveva infatti chiesto di poter andare in Spagna, dove infuriava la guerra civile.
Nella guerra civile spagnola
Arrivò a Barcellona nell’ottobre del 1936 ed entrò in contatto con Julian Gorkin del POUM, il partito comunista spagnolo antistalinista. Decise tuttavia di unirsi alle brigate internazionali motivando così la sua scelta: “Non sono più comunista. Ho lasciato la Russia e sono venuto in Spagna perché voglio combattere per la causa antifascista, ma con i comunisti non ho più nulla da spartire. Sono pilota aviatore: se posso esservi utile”.
Nelle brigate internazionali assunse il comando di un battaglione, poi noto come Colonna Picelli, il quale non godeva del favore dei comunisti. Forse anche per questo la Colonna Picelli venne sciolta e inglobata nel Battaglione Garibaldi che includeva tutti i volontari italiani in Spagna, indipendentemente dall’appartenenza politica. Picelli si trovò di nuovo insieme ai comunisti. Tra questi anche alcuni agenti del NKVD, la polizia segreta sovietica, antesignana del KGB.
La conquista di Mirabueno
Nel gennaio del 1937 Picelli guida i garibaldini all’attacco di Mirabueno, caposaldo franchista alle porte di Madrid, vincendo il nemico. L’aviazione sovietica vola allora sopra i cieli del villaggio ma, invece di supportare gli uomini di Picelli, spara raffiche a ripetizione. Un errore?
Oggi sappiamo che Stalin, ottusamente celebrato dal comunismo internazionale per la sua vittoria contro il nazifascismo, e ancora oggi ricordato da molti sedicenti “antifascisti” per lo sforzo bellico durante la Seconda guerra mondiale, ostacolò le forze rivoluzionarie durante la guerra civile spagnola, contribuendo decisamente alla loro sconfitta. Una sconfitta che aprì la strada al nazifascismo in Europa.
La morte
Il ruolo di Stalin e dei comunisti (non solo sovietici) nell’eliminazione dei leader anarchici e libertari, nella repressione del POUM, e nel fallimento della causa repubblicana spagnola, è ormai assodato. In quel clima si muoveva anche Picelli il quale certo non godeva dei favori degli stalinisti. Durante un attacco, mentre difendeva il fronte di Mirabueno, venne colpito a morte. Alcuni testimoni affermarono che cadde mentre sistemava una mitragliatrice. Il corpo venne abbandonato sul campo.
“La pallottola che l’ha fulminato, l’ha colpito alle spalle, all’altezza del cuore” scrisse poi l’amico Giorgio Braccialarghe che andò a recuperare il corpo. A Picelli vennero tributati tre funerali di Stato, a Madrid, Valencia e Barcellona. A quest’ultimo parteciparono più di centomila persone. Ma dietro le celebrazioni ufficiali già covava il dubbio. Le parole di Braccialarghe – futuro ambasciatore della Repubblica italiana – mettono in discussione la versione ufficiale della morte anche perché – secondo alcune testimonianze – il battaglione non disponeva di mitragliatrici. La morte di Picelli sarebbe allora un omicidio politico, uno dei tanti che gli agenti del NKVD, tra cui anche italiani, andavano compiendo in quei mesi in Spagna. Omicidi commessi su ordine di Stalin. Tesi accettata anche dallo storico Arrigo Petacco.
La vicenda di Guido Picelli, il “Che” di Parma come l’hanno ribattezzato alcuni, è stata recentemente ripresa da un documentario di Giancarlo Bocchi, regista e autore di importanti lavori sulle guerre jugoslave. Nel documentario “Il Ribelle“, Bocchi racconta la vicenda di Picelli.
Quale che sia la verità in merito alla sua morte, sappiamo invece la verità sulla sua vita: Guido Picelli era un antifascista, uno dei primi. Ma era un antifascista scomodo, libertario, indipendente. Ebbe in sorte di toccare con mano il comunismo realizzato, e ne comprese prima di altri la portata criminale. Ma soprattutto fu un uomo che si spese in prima persona per gli ideali della giustizia sociale, per il pane e per il lavoro dei ceti più poveri, quello che allora si chiamava “proletariato”. Lo fece combattendo, perché quella era la cifra della sua epoca. Picelli è un eroe dimenticato, nascosto dalle propagande ufficiali, la cui memoria non poteva che imbarazzare i quadri del comunismo italiano. Il suo ricordo è però stato conservato nelle vie della vecchia Parma, e il suo monito ci è arrivato intatto, senza aver perso di attualità: “Fermate il corso di un fiume, e avrete un’inondazione. Fermate l’avvenire, e avrete la rivoluzione”.