L’integrazione post-jugoslava nella diaspora trevigiana di Santa Lucia di Piave

Santa Lucia di Piave, un piccolo comune iperindustrializzato del Trevigiano. Qui, un secolo fa, furono roventi gli ultimi due anni di guerra. Nelle campagne, narra un testimone di quel tempo tragico, “ogni cinque metri c’era una buca di granata”. Oggi – senza saperlo – è un luogo sperimentale che produce integrazione vera. Perché lungo quell’argine silenzioso l’intraprendenza di un bosniaco di Tesanj (la cittadina location del film Gori vatra, “Benvenuto Mr. Presidente”) ha creato un ristorante (rigorosamente di cucina balcanica) con annessa musica dal vivo. Anche questa esclusivamente balcanica, un genere conosciuto come turbofolk che mette insieme sonorità tradizional-popolari con elementi turchi, zingari ed occidentali come il rap e la dance music.

Il locale, che può ospitare fino a 500 persone, si riempie soprattutto il sabato sera. Con due caratteristiche. La prima è data dalla presenza di star del turbofolk che sono in continua tournée per il mondo incontrando le numerose comunità degli emigranti della ex Jugoslavia. La seconda caratteristica è che a Santa Lucia di Piave arrivano a radunarsi, a cenare e a ballare alcune centinaia di immigrati – serbi, bosniaci, macedoni, kosovari, croati – che ci ricordano come in Veneto i fuoriusciti dalla ex Jugoslavia (soprattutto negli anni novanta) siano oggi circa 57 mila, la seconda comunità straniera dopo quella romena. Addirittura la più numerosa comunità macedone in Italia si trova in questa regione.

Questa musica balcanica sparata con forza lungo un tranquillo Piave dove cento anni fa si sparava tutt’altra musica ci racconta due cose. La prima è che, dopo un quarto di secolo esatto dalla disintegrazione jugoslava, qualcosa di “jugo” esiste ancora. L’Economist la chiama “jugosfera”, fatta di una lingua unica (checché ne dicano i nazionalismi) e di tante altre comunanze culturali e di business. Tra cui il turbofolk appunto, una popolarissima musica della diaspora che sa creare e mantenere legami ed identità.

La seconda cosa che a noi italiani insegnano esperienze come quella citata è che esiste una integrazione minuta, silenziosa, quotidiana che avviene nelle scuole, nelle botteghe, nei ristoranti, nelle piccole imprese. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, la chiama integrazione molecolare. I territori dei piccoli comuni, della fabbrica per campanile, della relazionalità diffusa hanno un vantaggio inclusivo che invece appare socialmente faticoso (e conflittuale) nelle grandi fabbriche o nei grandi quartieri urbani che diventano facilmente banlieue, cioè periferie in tutti i sensi. Spesso degradate e degradanti.

Quando il sabato sera arrivano a decine questi ex jugoslavi (in mancanza di ogni altra definizione sintetica), con la loro predilezione per le macchine tedesche e l’abbigliamento improntato al nero, si constata la presenza tranquilla di un pezzo di Veneto che funziona grazie al loro lavoro di camionisti, di operai, di commesse, di muratori, di camerieri, di badanti. Attività faticose, invisibili, che richiamano certe durezze degli anni sessanta. Ma che il sabato sera ritrovano qui la loro originaria identità con birre, cevapcici e turbofolk. Testimoni festosi di una integrazione ben riuscita.

Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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