Il primo round di negoziati con il regime si terrà all’inizio di gennaio. Ma Assad deve lasciare, non può gestire lui la fase di transizione. Questo, in sintesi, dice l’accordo siglato a Riyadh da parte dell’opposizione siriana. Il vertice del 9 e 10 dicembre raggiunge – sulla carta – l’importante risultato di riaprire il canale diplomatico, opzione caldeggiata il mese scorso a Vienna da Usa, Russia e le altre potenze regionali. La road map di Vienna prevederebbe anche un cessate il fuoco generale entro giugno e elezioni nel 2017.
I problemi iniziano con la lista degli invitati a Riyadh. C’è la Coalizione Nazionale Siriana (CNS), l’organo che esprime l’ormai cadaverico Esercito Siriano Libero. C’è anche il Comitato di Coordinamento Nazionale (CCN), tollerato dal regime e quindi considerato da molti altri gruppi di opposizione una sorta di longa manus di Assad. E ci sono anche gruppi combattenti come Ahrar al-Sham, Jaysh al-Islam e il Fronte del Sud. In teoria sono stati esclusi i jihadisti: ovviamente l’Isis, ma anche i qaedisti del Fronte al-Nusra. Però Ahrar al-Sham con al-Nusra ci collabora da anni e il leader di Jaysh al-Islam, Zahran Alloush, vuole creare un emirato islamico a Damasco. Quanto potrà durare un accordo se le agende politiche sono così divergenti?
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Poi c’è un problema di numeri. Da principio i delegati dovevano essere una cinquantina in tutto. Poi CNS e CCN hanno spinto per aumentare il loro peso specifico, un po’ per dare adeguata rappresentanza a tutte le correnti, un po’ per calcoli personali (un ipotetico governo transitorio pescherebbe probabilmente tra questi delegati). In definitiva a Riyadh si sono presentati in più di 100, ma così i gruppi combattenti pesano relativamente poco. Troppo poco, lamenta Ahrar al-Sham, che ha abbandonato i lavori salvo poi firmare l’accordo all’ultimo minuto. A rendere la situazione ancora più ambigua, pare che i leader del gruppo abbiano già sconfessato la scelta del loro inviato di firmare un accordo percepito troppo “secolare”. Accordo che non potrebbe essere più vago: impegno a trattare col regime, per costruire una Siria inclusiva, democratica e decentralizzata, salvaguardando le istituzioni e ristrutturando l’esercito. Il punto-cardine l’aveva già enunciato il ministro degli Esteri saudita al-Jubeir la vigilia: Assad se ne deve andare subito.
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Grandi assenti dal summit di Riyadh sono i curdi del PYD e le loro milizie YPG. Per loro nessun invito, visto che tra curdi e altri gruppi di opposizione non corre buon sangue: gli ultimi scontri si sono verificati a nord di Aleppo poco prima del vertice. E la Turchia, che insieme a Qatar e Arabia Saudita appoggia diverse milizie in Siria, ha probabilmente posto il suo veto. Ma i curdi non sono rimasti a guardare e hanno organizzato il loro contro-summit, insieme a tutte le forze riunite sotto il cappello delle Forze Democratiche Siriane (FDS) appoggiate dagli Usa. Posizione comune al termine del vertice: “se il regime è il problema, allora deve anche essere parte della soluzione”. Contestualmente è stato creato un Consiglio Democratico Siriano, braccio politico delle FDS, che spinge per un assetto federale dello stato, il riconoscimento delle minoranze e i diritti delle donne.
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Resta da vedere se e come saranno portati avanti i negoziati. Da Riyadh si chiede al regime di dimostrare buona volontà con cessate il fuoco locali e interruzione degli assedi in corso, ma finora la Russia ha continuato a bombardare, soprattutto le milizie sponsorizzate dalla Turchia. L’abbattimento dell’aereo militare russo continua a lasciare il segno. Insomma, tutto come al solito: senza un accordo tra le potenze estere, la situazione in Siria difficilmente cambierà di una virgola.
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