Questo articolo fa parte dell’ultimo numero di Most, rivista di politica internazionale. Ve lo proponiamo per intero, come approfondimento utile a capire la relazione tra profughi siriani, Stato Islamico e il regime di Assad.
Durante la conferenza stampa del 7 settembre all’Eliseo, Hollande ha compiuto un vero e proprio gioco di prestigio. L’attacco sventato sul treno Thalys, la distruzione di Palmira, il cadavere del bambino siriano sulla spiaggia turca di Bodrum: sono avvenimenti che “bussano alla porta della nostra coscienza”, ha affermato il presidente francese. Poi l’annuncio: bisogna mettere fine all’esodo dei siriani, e per farlo inizieremo a bombardare l’Isis in Siria.
Giochi di prestigio all’Eliseo
Chissà se prima della conferenza qualche funzionario ha bussato alla porta di Hollande per consegnargli un rapporto sulla situazione in Siria. Anche leggendolo di sfuggita si sarebbe accorto che la soluzione non è così semplice. Ma la decisione era presa e bisognava trasmetterla con un messaggio forte. Ecco servito il gioco di prestigio. La Siria non è più teatro di una terribile guerra civile che si trascina da quasi cinque anni. Non è una carneficina dove finora hanno perso la vita almeno 240mila persone. Non è un paese dove si fronteggiano in una guerra per procura tutte le potenze regionali e dove prosperano decine e decine di milizie locali. Hollande ha scelto di tacere tutto questo per tirare fuori dal cilindro un solo responsabile, un solo bersaglio, l’Isis.
E il messaggio è passato. Pochi hanno messo in dubbio la solidità di questa mossa. Dopo la Francia, anche la Gran Bretagna ha deciso di bombardare il Califfato in Siria. Parigi e Londra si trovano improvvisamente d’accordo su come bloccare il flusso di migranti, quando solo poche settimane prima litigavano per i siriani giunti in massa a Calais. E sulla stessa lunghezza d’onda si è mossa anche la Russia. Dal Cremlino fanno sapere che i rinforzi militari destinati all’alleato di Damasco servirebbero esclusivamente per combattere l’Isis.
Ma è davvero così? È l’Isis il responsabile di queste nuove ondate migratorie? Combatterlo è la strategia giusta per convincere i siriani a non lasciare il Paese, o a farvi ritorno? Chi lo sostiene afferma una verità dimezzata. Perché se è certamente vero che l’Isis gioca un qualche ruolo nell’esodo dei siriani, le cause eminenti del fenomeno vanno cercate altrove.
Assad uccide 9 volte più dell’Isis
L’Isis ha iniziato a controllare porzioni di territorio siriano, stabilmente e in autonomia, nei primi mesi del 2014, tre anni dopo l’inizio della guerra civile. A quella data i siriani che avevano lasciato il paese erano già 2,5 milioni. È la cifra che fornisce l’Unhcr, ma nel conteggio dell’agenzia Onu per i rifugiati rientrano solo quelli registrati in via ufficiale, quindi il computo totale è certamente più elevato. Dai primi successi siriani dell’Isis a settembre 2015 il numero di rifugiati è cresciuto di altri 1,5 milioni, sostanzialmente in linea con il trend registrato in precedenza.
Bastano questi dati per confutare la percezione di un aumento dell’emigrazione siriana. Percezione tutta europea, dovuta principalmente al fatto che negli ultimi mesi i profughi sono diventati “visibili” in Grecia, Croazia, Ungheria, Austria. Tuttavia si tratta di una percentuale minima rispetto a quella di quanti hanno scelto come meta uno dei paesi confinanti. La Turchia ospita da sola quasi 2 milioni di siriani, seguita da Libano (1,1 milioni), Giordania (600mila) e Iraq (250mila).
Certo, l’Isis appare più feroce e violento delle altre fazioni. Ma, appunto, questa è l’immagine che ha saputo costruire di sé grazie a una raffinatissima propaganda. La situazione sul campo racconta una realtà diversa. Il maggior numero di vittime cade sotto il fuoco dell’esercito di Assad, non per mano delle milizie dell’Isis. Uno sguardo ai dati rivela che non c’è proporzione fra i due gruppi. Secondo il Syrian Network for Human Rights (Snhr), fra l’agosto del 2014 e lo stesso mese del 2015 ben l’80% dei caduti è responsabilità di Assad. Il Califfato, invece, miete il 10% delle vittime, la stessa percentuale attribuita alle fazioni ribelli. Nel conto rientrano sia i combattenti sia i civili. Cifre sostanzialmente identiche a quelle diramate dal Violation Documentation Center in Syria (Vdcs), che attribuisce all’Isis il 7,4% delle vittime nel periodo agosto 2014 – maggio 2015. Il divario aumenta se si prendono in considerazione soltanto i civili: secondo il Snhr, dal 2011 a oggi il regime è responsabile di più del 96% delle uccisioni.
Tabula rasa
A questi numeri Assad è arrivato con l’uso massiccio di barili bomba. Si tratta di un’arma “cieca” che, lanciata indiscriminatamente su aree popolate in prevalenza da civili, raggiunge il doppio scopo di uccidere un elevato numero di persone e di seminare il panico. Per la semplicità di assemblaggio e il basso costo di produzione, l’impiego del barile bomba è cresciuto esponenzialmente di pari passo con l’aumento delle difficoltà finanziarie e logistiche del regime. Secondo stime del Vdcs, ben tre barili su quattro sono stati sganciati nell’ultimo anno e mezzo. L’effetto è che interi quartieri delle città sotto il controllo dei ribelli sono stati rasi al suolo.
E non è un aspetto secondario. Infatti è proprio nelle aree urbane che avevano trovato rifugio molti degli oltre 7 milioni di sfollati interni. Decine di migliaia di persone che negli ultimi mesi sono stati costretti a scegliere se restare nel Paese, col rischio di vedersi colpiti di nuovo, oppure se lasciare la Siria. Non solo. Molti siriani emigrati avevano scelto in via precauzionale destinazioni vicine (soprattutto le già citate Turchia, Libano e Giordania), nella speranza di poter tornare un giorno alle proprie abitazioni. Ma il livello di distruzione prodotta dal regime sta spingendo molti a cambiare progetti. E chi non è riuscito a rifarsi una vita nel Paese che lo ospitava, ora guarda all’Europa.
Ma le casse di Damasco sono vuote
Ma questa è solo parte della storia. Infatti la maggior parte della popolazione siriana, oggi, non vive nelle zone occupate dai ribelli e dall’Isis, ma nelle aree sotto il controllo del regime. La scelta non indica necessariamente che appoggino Assad. Semplicemente, lì sono al riparo dai bombardamenti visto che né i ribelli né lo Stato Islamico hanno a disposizione aerei o elicotteri. Basta non sistemarsi troppo a ridosso della linea del fronte per avere una chance di sopravvivenza in più. Ancora più importante, in questa scelta, è il fatto che Assad ha continuato a garantire i servizi di base alla popolazione, pur con tutte le difficoltà e le interruzioni del caso, nelle aree dove esercita il controllo.
Negli ultimi mesi, però, la situazione a Damasco, Hama, Homs, Latakia è drasticamente peggiorata. Il regime è in forte difficoltà economica. Questo significa che ha sostanzialmente congelato tutti i sussidi ai generi di prima necessità, fra cui pane, carburante e medicine, che era riuscito finora a mantenere. Le agevolazioni, insieme alla capacità di convogliare sulle zone controllate il grosso degli aiuti umanitari provenienti dall’estero e al pagamento degli stipendi ai funzionari statali, facevano sì che fosse considerato l’unica fonte di sostentamento affidabile. A Damasco il prezzo del pane, senza i sussidi a calmierarlo, è quasi raddoppiato nel giro di pochi mesi. Se oggi nella capitale il prezzo al chilo è circa 60 lire siriane, a Sweida sale a 100, a Homs è sui 150 e a Dara’a e Aleppo arriva anche a 200 lire. L’allevamento di polli, la principale fonte di proteine, è crollato del 50%. Così la Fao e il World Food Program stimano che i siriani a gravissimo rischio di sottonutrizione sono attualmente 7 milioni, un terzo dell’intera popolazione.
Il caso del carburante è esemplare sotto molti aspetti. Il regime ha prima perso il controllo dei pozzi petroliferi del nord-est, localizzati nella provincia di Hasakah ora controllata dai curdi. Poi è stata la volta di quelli situati nella fascia desertica centrale, vicino a Palmira e Deir ez-Zour, conquistati dall’Isis. Tuttavia Assad è riuscito a trovare una forma di accordo con il Califfato per garantirsi le forniture. I problemi sono iniziati con i bombardamenti della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, che hanno messo fuori uso gli impianti di Deir ez-Zour.
Fermare l’Isis non cambia (quasi) nulla
È quindi l’indebolirsi del regime, sempre più evidente, a convincere sempre più siriani a lasciare il Paese. Quanto c’entra l’Isis in tutto questo? Poco o nulla. Infatti i miliziani del Califfato hanno attaccato di rado le postazioni del regime, e Assad ha seguito la stessa linea. Ma sui diversi fronti è proprio il regime di Damasco che sta avendo la peggio, per mano dei ribelli. A marzo la coalizione Jaish al-Fatah (Esercito della Conquista) ha lanciato una potente offensiva nel nord-ovest, riuscendo prima a cacciare i lealisti da Idlib, poi a conquistare l’intera provincia per proseguire verso Hama e a ovest in direzione di Latakia, roccaforte alawita del regime. Nel sud del paese un’altra coalizione di ribelli negli ultimi mesi è riuscita a impadronirsi di tutti i valichi con la Giordania, ad assediare Dara’a e a mettere in difficoltà l’esercito regolare nei pressi di Sweida.
Fermare l’avanzata dell’Isis non potrà invertire questa tendenza. Il Califfato sta concentrando i suoi sforzi bellici nell’area a nord di Aleppo, dove fronteggia Jaish al-Fatah, per garantirsi l’ultimo lembo di terra al confine con la Turchia dopo la perdita di Tall Abiyad per mano dei curdi dell’Ypg. Da quel poroso confine riescono ad affluire nuovi combattenti dall’estero, armi ed equipaggiamento di vario tipo. Ma il Califfato, finora, non li ha quasi mai impiegati contro Assad. Un più deciso intervento aereo occidentale, invece, favorirebbe notevolmente i ribelli. Con un fronte in meno a cui pensare, non perderebbero tempo per intensificare gli attacchi contro Assad. Neppure la discesa in campo della Russia cambia davvero le carte in tavola. L’obiettivo di Mosca infatti sembra quello di congelare la situazione sul terreno, evitando il collasso militare dell’alleato, più che quello di lanciare una controffensiva. Ma più il conflitto si protrae, più il regime si trova in difficoltà nell’amministrare il suo territorio.
Se l’obiettivo è arginare i flussi migratori, allora l’unica via praticabile è la più scontata e, insieme, quella meno battuta in questi cinque anni: porre fine alla guerra civile e iniziare la ricostruzione di una Siria ridotta in macerie. Ma con la Russia di mezzo, ormai, questa soluzione significa includere il regime nei negoziati di pace e tenere Assad (o un suo successore) al potere almeno per un primo periodo di transizione. Il segretario di Stato americano John Kerry lo ha affermato esplicitamente. Austria, Spagna e Germania vanno nella stessa direzione. Francia e Gran Bretagna con tutta probabilità si adegueranno. Allora, forse, bombardare l’Isis in Siria serve principalmente a questo: far digerire agli elettori europei un voltafaccia di dimensione epocale. E l’immigrazione, nel frattempo, resta un fenomeno da affrontare soltanto con il bilancino delle quote.
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Nella foto: Yarmouk, campo profughi palestinese nei sobborghi meridionali di Damasco, tenuto sotto assedio dal regime di Assad. I residenti fanno la fila per la distribuzione di cibo dell’Unrwa. Era il gennaio del 2014.
“porre fine alla guerra civile e iniziare la ricostruzione di una Siria ridotta in macerie”…
COME?!?
Ricostruzione fantasiosa e corrispondente alla propaganda Usa, che ha scatenato, violando il diritto internazionale, una vera e propria guerra contro la Siria. I siriani vogliono Assad, la gente ha giubilato nelle strade nelle ultime elezioni e lo ha sostenuto in questi ultimi cinque terribili anni. I cosiddetti ribelli sono tutti stranieri, fondamentalisti. Viva la Siria libera e unita. Lasciate in pace i siriani, per amor di Dio.
Nell’articolo viene omesso il ruolo delle monarchia “democratiche” del Golfo, Arabia Saudita, Qatar Emirati nel creare, sovvenzionare il terrorismo internazionale. La guerra civile in Siria, ormai è chiaro, è eterodiretta dai promotori delle “rivoluzioni colorate” e delle “primavere arabe”……