La transizione politica della Bosnia-Erzegovina, venticinque anni dopo

di Francisco Morente Valero*

La scorsa settimana ho avuto la possibilità di far parte di una giuria che ha ascoltato una eccellente tesi di dottorato. Un esempio della qualità della ricerca svolta in molte delle nostre università e che si traduce in posti di lavoro, paragonabile a quelli delle migliori università internazionali. Il giovane e brillante autore della tesi si chiama Alfredo Sasso, il titolo della tesi è Non-nationalist Political Actors in Bosnia-Herzegovina (1989-1991) e la ricerca si è svolta al Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea presso la Universitat Autònoma di Barcellona.

Nella vortice degli eventi che stanno avendo luogo nell’Unione Europea è passato inosservato il venticinquesimo anniversario di una delle elezioni che hanno cambiato la storia in modo epocale: quelle che ebbero luogo in Bosnia-Erzegovina nel novembre del 1990. In quelle elezioni, e contro ogni pronostico, vinsero i partiti nazionalisti (serbi, croati e musulmani) che solo un mese prima erano stati dichiarati illegali in quella repubblica jugoslava. Il modo in cui il Parlamento bosniaco si è formato, così come le dinamiche ce si generarono a partire da quel momento, condussero un anno e mezzo dopo alla guerra più terribile che ha colpito un paese europeo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

La tesi analizza il periodo immediatamente precedente alle elezioni e le loro conseguenze. E lo fa tenendo conto delle dinamiche politiche, sociali ed economiche di quei tre anni cruciali. Il focus principale è nella spiegazione di come fu possibile che si producesse una enorme polarizzazione intorno all’asse nazionale, fino al punto di arrivare a una brutale guerra civile in una società nella quale solo un anno prima di queste cruciali elezioni l’identità nazionale non era un elemento rilevante nella definizione ideologica dei cittadini bosniaci, i quali non percepivano alcun tipo di tensione derivata da queste differenze identitarie.

La risposta, certamente complessa, si focalizza su alcune questioni rilevanti, come la crisi del regime politico, come parte del fallimento che colpì i paese dell’Europa orientale a seguito della perestrojka sovietica e del crollo del Muro di Berlino. La crisi propiziò una ridefinizione dello spazio politico e la comparsa di nuovi partiti che misero in discussione l’egemonia realizzata da coloro che avevano monopolizzato il potere nelle decadi precedenti, aprendo allo stesso tempo il dibattito sulle riforme costituzionali necessarie per affrontare la difficile situazione politica alle porte.

La crisi del regime si sviluppò all’interno di una cornice composta da scandali di corruzione e nella struttura di una profonda crisi economica che aveva innescato la crescita del tasso di disoccupazione, aveva eroso la situazione economica della classe media e aveva inciso pesantemente su una gioventù istruita da un punto di vista accademico, e frustrata tuttavia dalla difficile possibilità di ottenere buoni posti di lavoro. Il diffuso malessere sociale si è ritorto contro le istituzioni e le organizzazioni politiche e sindacali del regime, e non pochi cittadini bosniaci riposero le loro speranze nelle forze politiche nazionaliste affinché si trovasse una rapida uscita dalla grave situazione nella quale si trovavano.

Le tensioni tra le varie repubbliche che componevano la Jugoslavia, e specialmente tra le dinamiche indipendentiste di Slovenia e Croazia, da una parte, e la centralizzazione desiderata da Serbia e Montenegro, dall’altra, si trasferirono all’interno della Bosnia-Erzegovina. Il discredito delle istituzioni federali spianò la strada a coloro che sostenevano la dissoluzione dello Stato jugoslavo e la creazione di repubbliche indipendenti. Le differenze linguistiche, culturali e religiose, che fino a quel momento non solo non erano state rilevanti ma nemmeno conflittuali, iniziarono a esserlo nella misura in cui i nuovi partiti nazionalisti iniziarono a inventare rancori e differenze, disprezzando gli evidenti legami comuni per cercare di costruire un proprio spazio politico nel quale muoversi.

In questa dinamica le forze che erano trasversali a livello nazionale e cercavano di evitare a ogni costo un futuro parlamento diviso secondo i criteri dell’identità nazionale furono travolte da una logica perversa: votare nazionalista perché anche gli altri avrebbero fatto lo stesso; la difesa del proprio interesse non per appartenenza ideologica nel suo significato classico (sinistra/destra, socialismo/liberalismo), ma identificandosi con comunità nazionali omogenee. Tale sistema elettorale ha fatto il resto, prevalendo nelle zone rurali su quelle urbane. La cittadinanza è stata quindi sconfitta dalla nazione. Prima alle urne. Alcuni mesi dopo in una guerra spietata.

*Articolo pubblicato in spagnolo su El Pais il 25 novembre 2015. Traduzione a cura di Edoardo Corradi. Foto: Campionati di scacchi, Dubrovnik 1950

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