Natale in carcere

La richiesta arriva così, in un pomeriggio qualsiasi: – «Vuoi venire il sabato prima di Natale in carcere? Sappiamo che ci sei già stata, questa volta sarà una cosa un po’ diversa, distribuiamo panettone e qualche bibita ai detenuti». La risposta arriva dopo qualche giorno: – «Ok, ci sarò».

Sono già stata nella sezione femminile alcune volte, per svolgere attività artigianali insieme ad alcune detenute. «Questa volta sarà diverso», mi ripete la persona che mi ha contattata ed io un po’ le credo, un po’ lascio scivolare le sue parole. Sono una veterana, ormai, non penso che mi farò prendere troppo dalle emozioni.

Il giro nel blocco B inizia alle 15 del pomeriggio. Primo piano, blocco dei nuovi arrivati e di coloro che necessitano di un controllo suppletivo per i motivi più vari. Le celle, tutte banalmente, quanto tristemente uguali, sono dotate di un letto a castello, un tavolino, qualche pensile e una porta che dà sui servizi. In alcune c’è un solo detenuto, in altre due. Molti sono gli italiani, ma numerosi anche gli stranieri. Il Ministero della Giustizia al 30 novembre di quest’anno ha diramato i dati aggiornati sulle presenze straniere nelle carceri italiane. In tutto sono 17.387 di cui 804 donne su un totale di 52.636, in percentuale gli stranieri sono il 32%; le nazionalità più rappresentate sono legate ai flussi migratori, si tratta della Romania, del Marocco e dell’Albania, seguono, a netta distanza, la Tunisia, la Nigeria, l’Egitto e il Senegal. Poiché la cittadinanza del detenuto viene registrata nel momento in cui questi entra nell’istituto penitenziario, nell’elenco risultano anche alcune sorprese spazio-temporali: 247 detenuti provengono dalla Jugoslavia, mentre, accanto a sedici cittadini della Repubblica Ceca, compare un cittadino cecoslovacco.

Gli stranieri sono percentualmente più presenti in carcere per un insieme complesso di motivi: spesso, non avendo una residenza fissa, non possono richiedere gli arresti domiciliari, sono perlopiù difesi da avvocati d’ufficio supportati da un numero limitato di mediatori culturali, fra cui molti lavorano a titolo gratuito. Va anche aggiunto che la maggior parte degli stranieri si trova in carcere per reati minori: la metà di loro sconta condanne da 0 a 1 anno, mentre le condanne a oltre 20 anni li riguardano solo per il 12% contro l’88% di cittadini italiani.

Lasciato il piano dei sorvegliati in cella, si passa ai bracci dei detenuti di più lungo periodo. Qui è tutto diverso: il lungo corridoio, chiuso a doppia mandata dalla guardia all’ingresso, sembra la via principale di un piccolo paese. Attorno a due tavolini si gioca a carte, al fondo del corridoio, accanto al bucato steso su un filo improvvisato, un altrettanto improvvisato barbiere si sta occupando di pettinare un compagno di detenzione. È la vita che pulsa, qualche sorriso, un caffè preparato e offerto come sulla soglia di casa, le piantine un po’ rinsecchite, ma curate come se fossero su un balcone, le celle personalizzate con manifesti, pitture e fotografie ricordano un altrove che mette tristezza e insieme restituisce speranza.

«Questa volta sarà diverso», mi aveva avvisato chi mi ha invitato qui. E io ancora poco ci credo, mentre mi sposto negli ultimi bracci, dove convivono detenuti reclusi in cella e chi gode di una semilibertà di movimento. A fianco delle celle vedo una moschea, erede naturale delle presenze straniere, una piccola palestra dove due pugili in gran forma si allenano prima della cena, fornelletti che sprigionano profumi inattesi. Ma ci sono anche le mani che escono dalle sbarre per prendere un succo di ananas («Da quanto tempo non lo assaggiavo! ») o che indicano la cella di un compagno, assente perché occupato a fare la doccia, a distribuire i pasti o graziato dalla semi-libertà, ci sono i ringraziamenti e le ricorse per farti vedere la fotografia di un momento felice, la gioia di aver racimolato una bottiglia di plastica o un bicchiere, che, in luogo dove tutto è proibito o razionato, diventano un piccolo tesoro.

Finito il giro, i volontari che sono con me si apprestano a ritirare gli avanzi, a salutare le ultime guardie che ci hanno accompagnati nei nostri giri. Mentre ci stiamo preparando a uscire, una delle volontarie autorizzate a tenere colloqui con i detenuti, ci avvisa che ne deve incontrare uno. Pochi minuti e tornano insieme con uno sguardo sollevato, come se stessero portando a noi un regalo inatteso di Natale. Ed ecco l’annuncio: «A. ha deciso di terminare lo sciopero della fame».

Nessuno di noi conosce le sue motivazioni, nessuno sa le pieghe del suo percorso esistenziale e carcerario, ma la gioia si diffonde come se si fosse compiuto un piccolo miracolo e tutti ci adoperiamo a riempirlo di cioccolatini, fette di panettone, bibite zuccherate. Una gara a chi per primo contribuirà alla rottura del suo personale digiuno della vigilia di Natale.

Fonti

Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato statistica ed automazione di supporto dipartimentale – Sezione Statistica in https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.wp

Gabriella Meroni, In carcere un detenuto su tre è straniero, in «Vita», 16 febbraio 2015, http://www.vita.it/it/article/2015/02/06/carcere-un-detenuto-su-tre-e-straniero/129328/

Chi è Donatella Sasso

Laureata in Filosofia con indirizzo storico presso l’Università di Torino. Dal 2007 svolge attività di ricerca e coordinamento culturale presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino. Iscritta dal 2011 all’ordine dei giornalisti. Nel 2014, insieme a Krystyna Jaworska, ha curato la mostra Solidarność nei documenti della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Alcune fra le sue ultime pubblicazioni sono: "La guerra in Bosnia in P. Barberis" (a cura di), "Il filo di Arianna" (Mercurio 2009); "Milena, la terribile ragazza di Praga" (Effatà 2014); "A fianco di Solidarność. L’attività di sostegno al sindacato polacco nel Nord Italia" (1981-1989), «Quaderni della Fondazione Romana Marchesa J.S. Umiastowska», vol. XII, 2014.

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