di Davide Denti e Simone Zoppellaro
Per la Corte europea dei diritti dell’uomo negare pubblicamente l’esistenza del genocidio armeno non costituisce reato. Cancellata la condanna inflitta in Svizzera nel 2007 al politico turco ultranazionalista Doğu Perinçek, che aveva definito gli eventi del 1915 “una menzogna internazionale”. Infatti – secondo quanto deliberato a Strasburgo il 15 ottobre – ciò costituirebbe un’indebita “interferenza con l’esercizio del suo diritto alla libertà di espressione”.
Il caso Perinçek contro Svizzera
Perinçek, era stato incriminato in seguito alla partecipazione a una serie di conferenze in Svizzera nel 2005, durante le quali aveva pubblicamente negato che l’impero ottomano avesse perpetrato il crimine di genocidio contro gli armeni nel 1915. Durante un discorso pubblico nella città di Losanna, Perinçek aveva definito il genocidio una “menzogna internazionale”, accusando gli armeni di cospirare contro lo stato turco.
In risposta a una denuncia penale presentata dall’Associazione Svizzera-Armenia, il politico turco era stato processato e multato dalla Corte di Losanna nel marzo 2007. Il tribunale lo aveva condannato ad una pena di 90 giorni di carcere con la condizionale, a una multa e a un risarcimento simbolico all’Associazione Svizzera-Armenia per danni morali. Condanne confermate in appello e dal tribunale federale di cassazione, con riferimento all’articolo 261 bis del Codice penale svizzero, che punisce la discriminazione razziale, e all’articolo 264, dal titolo “genocidio”.
Negazionismo o libertà d’espressione?
Ma la condanna svizzera è stata ribaltata a Strasburgo. Le sentenze dei tribunali svizzeri, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, rappresentano una violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che garantisce il diritto alla libertà di espressione e di informazione. Questo articolo tutela la possibilità di esprimere liberamente idee offensive o sgradite alla maggior parte del pubblico, come nel caso di Perinçek. A nulla è servito l’intervento di Amal Clooney, moglie della star hollywoodiana, che a partire da gennaio aveva rappresentato gli interessi dell’Armenia, costituitasi parte civile nel processo.
I giudici della corte del Consiglio d’Europa, pur dichiarandosi consapevoli della grande importanza attribuita dalla comunità armena alla questione del genocidio, hanno ritenuto che la loro dignità fosse già protetta dall’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata), da bilanciare tuttavia con il diritto alla libertà d’espressione protetto dall’articolo 10. E in questo caso, in base alle specifiche circostanze e al principio di proporzionalità, hanno ritenuto che in una società democratica non fosse necessario sottoporre Perinçek ad un processo penale. Come elementi attenuanti, i giudici hanno preso in considerazione che le dichiarazioni di Perinçek concernevano un fatto di pubblico interesse e non si configuravano come un discorso d’odio o d’intolleranza; che il contesto in cui erano state pronunciate era quello di un dibattito acceso in Svizzera sui fatti del 1915; e che le corti svizzere – senza esservi costretta da obbligazioni internazionali – avevano deciso di censurare Perinçek solo per aver espresso un’opinione diversa da quelle prevalenti, con un’interferenza tanto grave da prendere la forma della condanna penale.
Un gioco politico?
Pur non entrando nel merito della questione, ovvero se la tragedia avvenuta nel 1915 nell’Impero ottomano sia da considerarsi o meno un genocidio, la Corte ha preso una decisione gravida di conseguenze per quel che riguarda il suo riconoscimento internazionale. Nell’anno del centenario, la sentenza è stata accolta con rabbia e sgomento da parte di molti armeni, che la ritengono ingiusta e politicamente motivata. Dubbi sono stati sollevati, in particolare, rispetto alla diversità di trattamento riservata nel 2003 al caso Garaudy c. Francia. Con quella sentenza, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ribadito la legittimità della condanna per ciò che riguarda la negazione della Shoah.
Tuttavia, secondo Payam Akhavan, professore all’università McGill di Montreal, “il caso non concerne la verità storica. Dalla prospettiva dei diritti umani, la libertà d’espressione è soggetto ad alcune limitazioni, tra cui l’incitamento alla discriminazione e all’odio. I dibattiti sulla verità storica o sulla classificazione legale di massacri come genocidio o altro non sono la questione centrale. La questione è se le dichiarazioni di Perinçek, considerate nel loro contesto, costituiscano un incitamento alla discriminazione e all’odio.”
Anche il prosecutore generale della Repubblica d’Armenia Gevorg Kostanian, che aveva partecipato al caso come terza parte, ha sottolineato come la decisione di Strasburgo “non mette in discussione i fatti del genocidio armeno“. La corte, sottolinea Kostanian, “ha stabilito che la legge svizzera è stata applicata nella maniera scorretta contro Perinçek” e che criminalizzare il negazionismo del genocidio armeno può essere legale, se fatto all’interno del quadro dei diritti stabiliti dalla Convenzione europea. Per il portavoce del partito armeno Dashnaktsutyun, Giro Manoyan, “avrebbe potuto andare peggio”, ad esempio se la corte avesse confermato la decisione in primo grado secondo la quale i fatti del genocidio non sono storicamente confermati. Al contrario, ciò è sparito dalla decisione d’appello.
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Foto: il politico turco Doğu Perinçek (AFP/Getty)