“Quella era una farsa. Quando c’era Gheddafi che comandava nessuno poteva uscire dalla Libia. Figuriamoci andare a giocare a calcio. Gheddafi ha organizzato quella messa in scena, ma del resto se non lo hanno fatto mai giocare qualcosa vorrà pur dire”. Parla Ahmad Benali, nuovo rinforzo per il centrocampo del Palermo, in un’intervista di Repubblica.
Benali è il secondo libico a giocare nella serie A italiana. Prima di lui solo Saadi Gheddafi, terzo figlio del raìs, aveva preso parte al campionato. Che fosse una messa in scena non c’è dubbio: fra il 2003 e il 2007 collezionò soltanto 25 minuti in campo (e un contrasto con Del Piero), esordendo con la divisa del Perugia di Gaucci per venire poi scaricato a Udinese e Sampdoria.
Quella farsa, però, cela i contorni cruenti di una tragedia di 15 anni fa. Saadi Gheddafi non è stato solo il volto nuovo del regime, che si apre al mondo dopo la revoca delle sanzioni nel 1999 e promette aiuto nella lotta al terrorismo internazionale, che cancella Lockerbie e gli esplosivi forniti all’IRA con la promessa di riforme (e con sontuosi accordi sullo sfruttamento di gas e petrolio a favore dei colossi europei e americani). Fu anche il protagonista della ‘rivoluzione del calcio’ nella Bengasi del luglio del 2000, la cui eco arriva fino alle proteste del 2011 e prepara il tramonto del regime.
Quando la repressione scende in campo
Il calcio mobilita le masse. Per la Jamahiriya del colonnello Gheddafi questo è al tempo stesso un problema e un’opportunità da non sprecare. Strumento di politica estera, vetrina del Paese che aspira a seguire le orme di Nasser e cerca l’unità della nazione araba.
L’Egitto aveva creato l’effimera Repubblica Araba Unita con la Siria, negli anni Gheddafi ci prova con quasi tutti gli Stati vicini. Così nel 1989 tocca all’Algeria ricevere le avances libiche. La nazionale è a un passo dalla storica qualificazione al campionato del mondo di calcio: deve solo battere l’undici algerino. Lo stadio di Tripoli è affollato di tifosi ma le squadre tardano a fare il loro ingresso in campo. Non giocheranno mai quei 90 minuti: l’arbitro entra, si posiziona al centro del campo e fischia la fine dell’incontro. Nell’ufficio della federazione di calcio libica è appena stato recapitato l’ordine di Gheddafi: poiché Libia e Algeria sono ‘di fatto’ una nazione sola, la partita non si deve giocare. Il colonnello sperava in questo modo di ingraziarsi il vicino. Invece dell’unione non se ne fece mai nulla, e ai mondiali si qualificò in automatico l’Algeria.
Nel decennio successivo il regime attraversa un periodo di forte difficoltà. Cresce l’islamismo con il ‘Gruppo dei combattenti islamici libici’, i mujaheddin originari di Derna e Bengasi fanno ritorno vittoriosi dalla lotta contro l’Unione Sovietica fra le montagne dell’Afghanistan. L’Algeria viene risucchiata in un vortice di violenza cieca che costerà almeno 200.000 vite e a Tripoli si teme il contagio. Il regime decide un giro di vite contro gli oppositori politici, rinchiusi nel carcere di Abu Salim dove nel giugno del 1996 saranno massacrati a migliaia. Bisogna prevenire i focolai di ribellione, tenere sotto controllo la situazione in modo capillare.
Così anche il calcio finisce sotto tutela. Alla fine degli anni ’90 Saadi viene designato presidente della federazione libica di calcio. Non solo: è anche proprietario, manager e giocatore (ovviamente con la fascia di capitano) dell’al-Ahly Tripoli, nonché della nazionale. La censura del regime entra negli stadi attraverso la voce degli altoparlanti. Tutti i giocatori devono essere chiamati col numero della maglia e non per nome, nessuno deve diventare più famoso del colonnello.
Delenda Bengasi
Un asino vestito con la maglia di Saadi Gheddafi ciondola fra le vie di Bengasi, capitale della Cirenaica. È il luglio del 2000, tifosi inferociti si sono riversati per strada. Dallo stadio alla sede locale della federazione di calcio tutti i ritratti del colonnello vengono dati alle fiamme, l’edificio devastato, i posti di polizia presi d’assalto. Pochi minuti prima l’arbitro ha fischiato un rigore di troppo, l’ennesimo a favore dell’al-Ahly Tripoli. Gli avversari dell’al-Ahly Bengasi non ci stanno, i tifosi iniziano a inveire e invadono il campo sotto lo sguardo gelido di Saadi.
Il copione, fino a quel momento, si era svolto come al solito: il Tripoli di Saadi deve vincere, e per non sbagliare l’arbitro gli assegna un rigore dopo l’altro. Ma su quel campo, a un certo punto, smettono di affrontarsi di squadre rivali. In scena va il conflitto fra il regime e la ribelle Cirenaica, che storicamente mal digerisce il primato di Tripoli. Sugli spalti ogni tifoso ha un familiare imprigionato, un conoscente svanito nel nulla. Tutti ricordano le gesta di Omar al-Mukhtar, l’eroe della resistenza all’Italia fascista che combatté sulle montagne di Bayda. Un simbolo così forte che il giovane Gheddafi se ne appropria immediatamente alla presa del potere nel ’69. Ma 31 anni dopo, il confronto fra la memoria della resistenza e la realtà del regime stride.
Non bastano i 32 tifosi arrestati quel giorno, molti dei quali saranno torturati e tre condannati a morte. Saadi promette vendetta. Aspetterà il primo di settembre, anniversario della rivoluzione del padre. Tre bulldozer arrivano al cancello dello stadio e iniziano a radere al suolo l’emblema del club, spalti, spogliatoi, uffici. Impiegano quattro ore a demolire i 53 anni di storia della squadra, mentre l’esercito ad armi puntate costringe la popolazione di Bengasi ad assistere e applaudire. Alla fine dei 37 ettari dell’impianto sportivo non resta nulla. Non sarà mai ricostruito, fra i calcinacci trova il tempo di crescere il rododendro.
Il fischio d’inizio della rivoluzione
La rivoluzione del 2011 è stata decisa prima ancora di iniziare. E un ruolo di primo piano l’ha giocato proprio il ricordo di quella partita, l’ultimo grande e simbolico affronto in decenni di oppressione dell’intera Cirenaica. Il ‘Giorno della Rabbia’ è in calendario per il 17 febbraio. Quello stesso giorno, nel 2006, la protesta a Bengasi contro le vignette su Maometto pubblicate da un giornale danese sono finite nel sangue, la polizia ha sparato lasciando a terra 11 corpi. Perciò Gheddafi sa che deve soffocare la rivolta sul nascere e mobilita l’intero apparato del regime. I primi passi sono un misto di minacce e promesse di concessioni. Il 15 febbraio la polizia arresta Fathi Terbil, avvocato e difensore dei diritti umani che da anni è il volto della ricerca della verità riguardo ai fatti di Abu Salim. Il massacro è sempre stato negato o sminuito da Gheddafi, ma Terbil ha saputo unire i familiari delle vittime e fare costante pressione. Appena arrestato si ritrova a tu per tu con Abdullah Senussi, capo dei servizi segreti e fedelissimo del regime. Il patto è questo: noi ti liberiamo e tu fermi immediatamente le proteste. Tentativo inutile, Bengasi è già scesa in corteo per chiederne il rilascio.
Fra i manifestanti molti vestono di bianco e rosso, i colori sociali dell’al-Ahly Bengasi che erano stati banditi ufficialmente 11 anni prima. Fallito il tentativo con Terbil, Gheddafi consegna la grana a Saadi. È Saadi a tentare di bloccare la rivolta, probabilmente l’uomo meno indicato per quel compito. Fa contattare Moataz Ben Amer, il capitano dell’al-Ahly, intimandogli di presentarsi alla radio per condannare pubblicamente le proteste. Ben Amer rifiuta. Allora squilla il telefono del presidente dell’al-Ahly Tripoli, dove una volta militava Saadi. Gli ordinano di dichiarare che i ribelli di Bengasi sono legati ad al-Qaeda, ma la risposta ancora una volta è negativa. Tifosi e giocatori del Bengasi sono in prima linea alle manifestazioni. Di lì a qualche giorno guideranno l’assalto alla caserma principale della città. La prima vittoria della rivoluzione.