LIBIA: Attentato al Corinthia. L'ombra dell'Isis sui negoziati di pace

Nuovo attacco in Libia, lo scorso 27 gennaio: questa volta all’Hotel Corinthia, uno dei luoghi più lussuosi di Tripoli e, probabilmente, uno dei pochi considerati ancora sicuri, abbastanza da ospitare i diplomatici stranieri che, nonostante la chiusura di molte ambasciate occidentali in Libia, visitano il paese. Secondo le ricostruzioni pubblicate sulla maggior parte delle testate internazionali, uno dei cinque attentatori si è fatto esplodere nel parcheggio, uccidendo tre guardie libiche, mentre gli altri hanno aperto il fuoco su ospiti e staff dell’albergo, togliendo la vita ad almeno cinque stranieri. Le diverse versioni dell’accaduto, comunque, non combaciano mai del tutto.

Al momento dell’attacco nell’albergo era presente anche Omar al-Hassi, vero obiettivo del colpo armato, capo del governo non riconosciuto dalla comunità internazionale, istituito a Tripoli: questo almeno è quanto hanno asserito i membri di Alba Libica, la grossa coalizione di forze armate che combatte in difesa del governo di Tripoli, in una conferenza stampa tenuta poco dopo i fatti accaduti al Corinthia.

Libia una e trina: tra governo a Tobruk, islamisti a Tripoli, e l’ombra dello Stato Islamico

Questo nutrirebbe l’ipotesi più diffusa secondo cui il gruppo di attentatori si richiami allo Stato Islamico, chiaramente in opposizione sia al Parlamento di Tripoli che a quello di Tobruk; l’attacco al Corinthia è stato effettivamente rivendicato dal “Califfato di Derna”, città libica ormai totalmente sotto il controllo delle truppe vicine all’ISIS. La ragione sarebbe la vendetta per la morte negli USA, lo scorso 2 gennaio, di Abu Anas al-Libi, considerato fra i maggiori responsabili degli attentati alle ambasciate statunitensi di Tanzania e Kenya nel 1998, il quale lavorava come esperto informatico per al-Qaeda. Al-Libi sarebbe morto di tumore in un carcere statunitense.

La Libia è quindi ancora divisa tra almeno tre fazioni che si contendono il Paese: il governo riconosciuto a Tobruk, sotto il comando del Generale Haftar, il secondo governo islamista di Tripoli e, infine, una terza fazione in stretti rapporti con lo Stato Islamico. Situazione intricata che si vorrebbe risolvere a Ginevra, in una negoziazione che era stata interrotta e poi ripresa il 26 gennaio scorso: protagonisti sono i rappresentanti delle municipalità libiche più influenti e i membri dei gruppi armati che hanno scelto di partecipare alle negoziazioni.

Negoziati difficili; verso un intervento di peacekeeping ONU?

Bernardino Leòn, rappresentante speciale dell’Onu in Libia, ha ammesso che ci sono ancora molti gruppi che rifiutano di dialogare ma «i libici stessi, in qualche modo, sanzionano socialmente quelli che si oppongono al dialogo»: gli abitanti del Paese «sono stufi di questo conflitto e vogliono che queste trattative vadano a buon fine».

Sulla questione c’è fermento anche all’interno dell’Unione Africana, che sta organizzando, ad Addis Abeba, meeting dedicati in modo specifico alla risoluzione dei conflitti in Libia: lo scorso settembre, a New York, l’Unione ha fondato lo International Contact Group for Libya, il cui ultimo incontro si è svolto il 28 gennaio.

La presidentessa dell’Unione Africana, Nkosazana Dlamini-Zuma, ha espresso posizione contro ad ogni intervento militare in Libia e punta tutto sul dialogo. Non sono però totalmente esclusi interventi di peacekeeping nel Paese: la stessa Italia, nelle dichiarazioni di Matteo Renzi, sarebbe pronta a prendere parte a iniziative in questo senso, se promosse dall’Onu, ma solo a fronte di un fallimento delle negoziazioni portate avanti da Leòn.

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