Fiume, la festa rivoluzionaria di D’Annunzio. Altro che fascismo!

Cosa sappiamo della cosiddetta “impresa fiumana”? Tutto e niente. I fatti di quel breve torno di storia sono stati oggetto di centinaia di interpretazioni, speculazioni, pregiudizi politici o ideologici, che ne hanno impedito una lettura distaccata e serena. Quella di Fiume è stata bollata come esperienza “nazionalista” e “fascista”, alla luce delle relazioni che intercorsero tra Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini, futuro “duce” del fascismo che ne riprese in larga misura l’estetica e gli slogan.

Un carnevale anarchico

Ma “l’impresa fiumana” fu molto di più: un grande carnevale anarchico in cui la morale corrente era costantemente rovesciata, in cui ideali socialisti, bolscevichi, individualisti e patriottardi si mescolarono in un unicum tenuto insieme dalla potenza dell’estetismo dannunziano. Fiume fu la capitale di un nuovo modo di vivere sociale, erotico, politico, artistico, chiamando a sé giovani “arditi”, rivoluzionari e anarchici, futuristi. Le droghe, l’omosessualità, il nudismo, l’amore libero, erano espressioni esteriori di una rivoluzione morale che doveva farsi all’interno dell’individuo creando una società nuova, ribelle, dionisiaca, che scardinasse lo status quo borghese e liberale. Per alcuni storici (Parlato, Fabi) Fiume fu il prodromo del ’68 europeo poiché lì, per la prima volta, venne sperimentata una forma alternativa di società, dando linfa a quel futurismo da cui si svilupperanno dadaismo, surrealismo, simbolismo, la cui lezione si rovescerà direttamente nelle avanguardie artistiche e politiche degli anni Sessanta. (LEGGI: Settant’anni di avanguardia italiana)

22fbeebcover12510Molti furono gli aspetti libertari del periodo fiumano: nella controsocietà dannunziana la “festa” era il cardine della vita quotidiana. Le continue parate di bande musicali, benché spesso in divisa da “arditi”, erano l’espressione della ricerca del dionisiaco, dell’orgia delle passioni. Le continue danze sotto le bandiere, la musica militare nelle piazze illuminate, le droghe e il sesso, erano aspetti di una città in quotidiana rivoluzione. Fu una “festa della rivoluzione”, come l’ha chiamata Claudia Salaris.

Fiume e la ribellione futurista

Il giornale “La testa di ferro”, che nel sottotitolo recitava “la voce libera dei legionari di Fiume”, può sembrare a prima vista un giornale “proto-fascista” per il linguaggio, l’uso del carattere tipografico, la scelta del nome, ma era espressione di un anarchismo sovversivo ben espresso da un editoriale del direttore, Mario Carli:

“Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste: le dinastie ed i carceri, il papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, l’archeologia e i corrieri della sera […] io mi sento assai vicino alla concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo di uomo libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini”

Parole che riecheggiano in un intervento di Marinetti, che a Fiume è rimasto poco a causa dei contrasti con D’Annunzio:

“Vogliamo liberare l’Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal matrimonio, dal parlamento. Vogliamo un governo tecnico senza parlamento, vivificato da un consiglio, o eccitatorio di giovanissimi. Vogliamo l’abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e delle carceri… Il nostro patriottismo rivoluzionario non è fatto di sentimento, ma di dinamico senso pratico che vuole ad ogni costo esercitare un’azione reale, distruttrice e benefica”

Marinetti, come D’Annunzio, è poeta bollato di “fascismo”, come lo è il futurismo tout court. Ma se il “marinettismo” fu simpatetico con il fascismo, e senz’altro il primo fascismo fu innervato di anarchismo individualista (tradizione, questa, anche dell’Italia repubblicana con le sue leghe e moVimenti), il futurismo fu un’espressione più complessa, ludica e ribelle, che a Fiume ebbe la possibilità di sperimentarsi in letture pubbliche, pezzi di teatro, baruffe e scazzottate, sbornie e amplessi.

Lo stesso D’Annunzio, sulle colonne del giornale, disse: “tutta la mia cultura è anarchica […] la mia opera non è nazionalista”. Quanto basta a rovesciare le comuni credenze che vogliono l’impresa fiumana come un bubbone del peggiore nazionalismo italiano, prodromo dell’imminente deriva fascista. Anche D’Annunzio si confuse parecchio a Fiume, accusando Mussolini di viltà e opportunismo, dicendosi “comunista“, e fiorendo nella sua migliore estetica: dall’eia eia alalà, in cui si combinava il grido di battaglia di Alessandro Magno con quello degli opliti dell’antica Grecia, al “me ne frego“, in realtà coniato dal poeta futurista Bruno Corra, fino ai discorsi dal balcone che poi Mussolini avrebbe imitato.

La “Carta del Carnaro”, prove di democrazia diretta

Ma c’era qualcosa di concreto dietro questa estetica. Un progetto politico. La Costituzione del Carnaro, promulgata l’8 settembre del 1920, era estremamente avanzata nel campo dei diritti civili: suffragio universale maschile e femminile (in Italia solo 1948); parità di salario tra uomini e donne; divorzio (in Italia solo nel 1970); gratuità dell’istruzione elementare; libertà di stampa. Elementi di socialismo sono presenti nell’attenzione ai diritti sociali, dalla pensione al reddito minimo, con particolare importanza nei confronti del lavoro “unico mezzo di scambio” che ha lo scopo “dell’elevazione spirituale” e non del “bruto sfruttamento”. La proprietà privata veniva consentita ma non come “riservata alla persona come fosse una sua parte”. Soprattutto la Costituzione affermava che Fiume era repubblica a “democrazia diretta” per la quale il popolo era legislatore attraverso assemblee, senza intermediazione di partiti o parlamento.

D’Annunzio e l’antislavismo

La Carta apriva ai diritti della minoranza slava della città, con cui D’Annunzio non fu tenero in precedenza. Nella Lettera ai Dalmati del 1919 il poeta riscaldava gli animi degli italiani d’oltre Adriatico con un discorso acceso di retorica nazionalista nel quale, con il suo stile abituale, definiva gli slavi una “accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso”. Non un’espressione di antislavismo quanto di un nazionalismo “a tutto tondo” tipico nel discorso politico dell’epoca, all’indomani di una guerra che per essere combattuta e vinta doveva contenere l’odio del nemico. Nella stessa lettera il poeta riserva per i vicini francesi parole simili a quelle riservate agli slavi: “il Celta che sotto il bianco pelo mal dissimula la bene esercitata mascella belluina”. Questo non significa che, animati dalle sue parole, gruppi di teste calde non abbiano messo a ferro e fuoco le campagne (a maggioranza slava) intorno a Fiume, consapevoli della loro impunità. Ma D’Annunzio contiene in sé, nella sua azione politica e nella sua retorica, tutto e il contrario di tutto: fu deputato socialista prima della guerra (nelle fila del PSI) e lo stato fiumano, di cui era a capo, fu il primo paese a riconoscere l’Unione Sovietica, che ricambiò il favore.

L’ufficio colpi di mano

Interessante, infine, fu il modello economico che potremmo definire “piratesco”. Colpita dall’embargo commerciale, la piccola repubblica fiumana si sostenne attraverso atti di pirateria: con veloci unità navali i legionari di D’Annunzio assaltavano navi commerciali nell’Adriatico. Si fecero chiamare “uscocchi“, dal nome dei pirati slavi che nel XVI° secolo dalle coste di Istria e Dalmazia assaltavano le imbarcazioni ottomane e veneziane. A occuparsi della pirateria era un apposito ministero, l’Ufficio colpi di mano, dal cui nome emerge tutta la carica ludica e rivoluzionaria della lezione futurista (poi assente sia nel marinettismo che nel fascismo).

Conclusioni

Fiume è stata anche, ma non solo, il laboratorio dell’estetica fascista. Questo è innegabile. Tuttavia non va dimenticato ciò che dietro quell’estetica si nascondeva: un intreccio di patriottismo, comunismo, socialismo, anarchismo, innervato da impulsi futuristi di rovesciamento delle convenzioni morali. Fu lo stato contraddittorio e fantastico, metà empireo e metà bordello, inventato dalla follia visionaria di un poeta arrogante e intelligente, colto e vanesio. Un poeta vero che ha tradotto in vita la poesia. E Fiume fu, per sua definizione, la “città della vita”. I simboli di morte, il teschio poi ripreso dal fascismo, erano lì espressione della massima pulsione della vita. Una vita per cui valeva la pena di morire. L’impresa di Fiume si concluse con il “Natale di sangue” del 1920, la prima volta in cui italiani fecero la guerra contro altri italiani, azione benedetta dallo stesso Mussolini che due anni dopo, da “duce” del fascismo, occuperà nuovamente la città ma questa volta senza feste, schiacciandola sotto il passo marziale delle camicie nere e del loro cupo conformismo senza fantasia.

Quella di Fiume è una pagina della nostra storia che andrebbe vista nel suo insieme, con sereno distacco, senza farne bandiera e senza giudizi ideologici. Ponendo polemicamente l’accento su aspetti meno noti, e forse difficili da digerire per chi (da destra come da sinistra) guarda a quegli eventi, si è qui voluto mostrare non il rovescio della medaglia, ma la contraddittoria coerenza di una sfera, che non ha facce ma un’indistinguibile superficie in cui tutto si specchia e deforma.

Per saperne di più si legga “Alla festa della Rivoluzione“, di Claudia Salaris, Il Mulino 2008

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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18 commenti

  1. Mi sembra che l’articolo si ponga sulla scia delle cose scritte da Massimo Consoli, Hakim Bey, Claudia Salaris.

    Io ho sempre nutrito qualche dubbio.

    non è che l’essenza del fascismo sta proprio nel fatto di non essere assimilabile alla destra conservatrice tradizionale? Non sta nel fatto di inglobare e far propria la carica rivoluzionaria dei movimenti anarchici, socialisti e comunisti privandoli del connotato classista? non è proprio questa miscela vitalistica, estetica, trasgressiva e all’apparenza antiborghese che si mobilitano masse per una “rivoluzione” a favore dell’ordine costituito cioè dei rapporti sociali e di proprietà esistenti?

    • caro Maurizio

      grazie del commento. Le dico la mia opinione, e sia chiaro che non sono uno storico: le caratteristiche che lei elenca sono sicuramente ascrivibili al primo fascismo ma, credo, solo al primo. Il “fascismo compiuto” sarà conformista, reazionario, borghese, con un’estetica inerte per eccesso di codificazione. Mentre quella di Fiume è “dannunzianesimo compiuto”, realizzato al massimo delle sue possibilità. Quindi le caratteristiche che lei elenca ritengo siano proprie solo del “dannunzianesimo” fiumano (mi passi la terminologia, è per capirci) ma non del fascismo. Certo Mussolini le ha utilizzate per i suoi fini, ma non erano coerenti con il suo scopo. Mentre lo erano con lo scopo di D’Annunzio.

      Assolutamente sì, l’articolo si pone sulla scia degli autori da lei citati. Soprattutto s’intendeva, attraverso quegli autori, cercare di de-ideologizzare la questione. Come ho detto, non sono uno storico. Cerco di fare informazione e un po’ di polemica se è utile a portare alcuni temi all’attenzione generale. E questo mi sembra un tema interessante e importante. Saluto cordialmente

      Matteo

  2. Articolo interessante e provocatorio. Una questione mi sembra però poco approfondita, quella del rapporto con gli slavi: si scrive “La Carta apriva ai diritti della minoranza slava della città, con cui D’Annunzio non fu tenero in precedenza.”. Quale fu effettivamente l’atteggiamento di questo ” intreccio di patriottismo, comunismo, socialismo, anarchismo, innervato da impulsi futuristi di rovesciamento delle convenzioni morali” verso i non-italiani? si può parlare di razzismo, come si evince dalle parole di D’annunzio citate o di tolleranza, come si dice in riferimento alla Carta?

    Cordiali saluti.

    Riccardo

    • caro Riccardo

      ha ragione, è poco approfondita. Non mi sento di esprimere un giudizio in merito poiché non conosco tutte le fonti. La mia opinione è che quello di D’Annunzio non fosse razzismo in senso stretto quanto nazionalismo esacerbato in retoriche che però, all’epoca, facevano parte del normale discorso politico nazionalista. Le retoriche del nemico usurpatore, descritto a tinte fosche finanche disumane, che servì a rianimare lo sciovinismo italiano dopo Caporetto. Mi chiedo se ci sarebbe stata una rivincita italiana senza quelle retoriche.
      Nel 1919 i giornali erano pieni di quelle retoriche e slogan, allorché all’Italia non fu riconosciuta l’annessione di Fiume. Insomma, dico che i toni della Lettera ai Dalmati erano toni abituali all’epoca, anche se oggi riempiono d’indignazione. Era razzismo? Secondo me no, ma certo il razzismo nella società italiana c’era eccome e D’Annunzio lo sapeva. Che giocasse su quei sentimenti, quando teneva le sue orazioni, è probabile ma non ho certezza. Come è probabile che gli episodi di persecuzioni ai danni degli slavi siano indirettamente figli di certe retoriche, non solo sue. E però certo D’Annunzio non era un campione di tolleranza. Ma non arrivò mai a sostenere la persecuzione degli slavi. Il suo – secondo me – era nazionalismo (italiano) che contrapponeva ad altro nazionalismo (slavo, in questo caso). Sempre nella Lettera ai Dalmati si legge che “quando l’uomo cesserà di essere lupo all’uomo, le nazioni dovranno essere leonesse alle nazioni”. A me sembra che, al sopruso dell’uomo sull’uomo (e il razzismo rientra in questa categoria) D’Annunzio preferisse lo scontro tra “nazioni”, che è cosa diversa. Cordialmente

      Matteo

      • Grazie per la risposta articolata e dettagliata.
        Condivido l’idea di giudicare determinate posizioni in linea con i toni dell’epoca più che con i valori di oggi (per cui sarebbero, evidentemente, inaccettabili). Difficile inoltre dire quanto quella esperienza abbia responsabilità rispetto agli eventi successivi. Cordialmente.

        Riccardo

  3. Giovanni Comisso fu a Fiume e scrisse pagine bellissime su questa esperienza, mi pare nel Porto dell’amore?

    • Esatto… tra i legionari c’era anche Comisso… A Fiume – sia pure con molta discrezione – conviveva con un altro legionario (e questo a proposito di libertà civili).

  4. Assolutamente d’accordo con le conclusioni: l’impresa di Fiume fu tutt’altro che fascista, perché sostanzialmente antiborghese. Aggiungo che a Fiume il nuovo diritto civile prevedeva il divorzio: non era una questione da poco. Se ricordo bene qualcuno andò a Fiume per divorziare, ma ovviamente non ottenne il riconoscimento degli atti da alcun tribunale italiano. Per il divorzio in Italia abbiamo dovuto aspettare poi mezzo secolo, ma il Concordato arrivò invece dieci anni dopo …
    Altra questione più complicata – e in effetti da approfondire, magari in un’altra occasione – è quella degli ‘slavi’. In effetti Fiume fino al 1918 apparteneva al regno di Ungheria e gli ungheresi (che comunque slavi non sono) avevano tentato una magiarizzazione forzata imponendo la studio della lingua nelle scuole. Di fatto i dintorni della città erano però abitati da croati, gli stessi che dopo aver mal sopportato gli ungheresi, non furono affatto soddisfatti della svolta serbocentrica che avrebbe assunto il regno di Jugoslavia. Atenzione quindi che il concetto di slavi è molto generico.

  5. Ottimo articolo. La Carta del Carnaro oltretutto sarebbe ancora decisamente all’avanguardia rispetto alle mediocri forme di democrazia dittatoriale di cui siam schiavi oggi in tutto il mondo. Illuminata e frutto di un grande uomo, coadiuvato naturalmente dai “tecnici”.

  6. Leggere le pagine di Comisso fa capire il punto di vista di uno, autorevole anche se ancora sconosciuto come scrittore, che visse l’avventura fino in fondo, come pura gioia di vivere di un poco più che ventenne.
    Germi del primo fascismo ci furono, ma mi pare fosse l’anrco-futurismo la dimensione pervasiva di quella originale esperienza che interessò persino Lenin.

  7. I miei complimenti! Un ottimo articolo, davvero! Finalmente si riesce a leggere qualcosa di estremamente interessante e di verosimile sull’impresa fiumana! Bravissimo!

  8. Federico Carlo Simonelli

    Un buon articolo, se visto nell’ottica di strappare Fiume alla categoria storica di “precursione del fascismo”.
    Il rischio è, tuttavia, quel che presenta anche l’opera di Salaris, Consoli, Bey, e cioé di mostrare i sedici mesi di Fiume dannunziana come una “festa” e un regime di carnevale (in senso etnologico) permanente, avvalorando i rituali e le iniziative di alcuni legionari con documenti come la Carta, l’ordinamento dell’esercito, i diritti di genere e la politica sindacale.
    In primo luogo, va detto che la marcia su Fiume fu pensata per affermare i diritti italiani in Dalmazia, che era nei programmi del Nazionalismo militarista e conservatore. Certo, molti militari erano disposti a rinunciare al resto della Dalmazia in cambio della sola Fiume, ma di questa idea d’Annunzio non fu mai. (vedere carteggio con De Ambris).
    In secondo luogo, la democrazia non fu mai messa in atto durante i sedici mesi. Al contrario, le uniche votazioni furono ignorate e annullate dallo stesso d’Annunzio. I legionari non festeggiavano tutto il giorno. Presidiavano uffici, sedi associative e infrastrutture con le armi alla mano.
    La carta del Carnaro e l’ordinamento dell’esercito non furono mai messe in atto, mentre il divorzio e i diritti di genere erano prerogative del libero Comune di Fiume da decenni.
    Mussolini cavalcò il fenomeno fintanto che esso era utile al suo progetto politico di riunire tutte le forze del combattentismo. Dopo il 1921, il fascismo deformò la leggenda dei legionari a suo gioco, facendone i “fratelli maggiori” degli squadristi. Se il “dannunzianesimo” di De Ambris fu un’importante fonte ideologica per l’antifascismo delle origini, ciò non toglie che esso fu sconfitto per il completo disinteresse dello stesso d’Annunzio.

    Il rischio di sostituire l’immagine “Fiume fascista” con un’immagine di una “Fiume hippie” è grande.

    L’articolo è buono, ma sul piano storiografico è necessario ribadire che la rappresentazione libertaria conviveva strumentalmente con un’occupazione militare tutt’altro che poetica, in pieno stile con il clima arroventato e violento che avrebbe percorso il paese nella prima metà degli anni ’20.

  9. Laura Matelda Puppini

    Pareri personali, opinions, di chi firma detto articolo, senza contestualizzazione alcuna e avente come fonti poche righe di D’Annunizio estrapolate dai contesti, o da ignoti, pare, giornalisti. Ma è questo il nuovo corso, che vuole le opinioni battere i fatti. Grazie ancora una volta a Marco Travaglio per avercelo chiarito, in momenti già sospetti ( il riferimento è al volume di Marco Travaglio, Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni. La scomparsa dei fatti, Il Saggitario, 2007). E magari il sommo poeta voleva solo legittimare, fuori dal suolo italico giustamente poco permissivo in tema di morale pubblica, alcuni suoi comportamenti, piuttosto biasimevoli, come quelli, par di capire, di suoi fedelissimi ed amicuzzi, comportamenti poi anche di fascisti… Il mito del maschio prestante e virile era già in voga… magari poi se era permesso mostrare gli attributi e tale prestanza in pubblico, che ne so, perché no … prendendo tutti per i fondelli….e aprendosi un paradiso per la dissolutezza… che nulla ha a che fare con le anarchiche bandiere nere che sventolavano in Carnia… Che poi l’impresa fiumana, su cui mancano le fonti slave, ammesso che il vate permettesse detta libera espressione, sia definita una prova di democrazia confondendo le orge permesse a pochi, come si capisce da questo testo, con la stessa, beh, mi pare davvero un po’ eccessivo… Si legga almeno, sull’impresa fiumana, quanto scrive Denis Mack Smith, nel suo: Breve storia d’ Italia, Laterza ed., prima ed. italiana 2000, sesta ed. 2011, ed il primo capitolo di Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira, Storia d’ Italia nel periodo fascista, Einaudi ed., 1956 prima ed. 1964 seconda ed.. Non avevano capito nulla dell’ impresa fiumana? Erano prevenuti verso il vate che si poteva permettere di pensare al libero amore, mentre nelle piazze italiane invano gli operai chiedevano”pane e lavoro”?

    • Gent. Laura Matelda

      nessuna intenzione di dire che Salvatorelli non abbia compreso. Le fonti che uso sono citate (dagli autori potrà facilmente risalire ai testi). Di queste una (il libro della Salaris) è linkato. Sono tutti storici, e tutti della nuova generazione. La storia, per fortuna, è oggetto di costante revisione fin dai tempi antichi. Non posso rispondere alla sua domanda se non rimandandola alla lettura degli autori citati. Poi, mi perdoni, ma chi firma l’articolo non è ignoto – in quanto l’articolo è firmato, e il mio curriculum è online – e quindi vedrà che non pare, ma effettivamente chi firma è giornalista. E da giornalista sa che cosa è un fatto, cosa è un’opinione, e cita le fonti. E le può dire, con l’umiltà di chi non è un Travaglio, che in un articolo di divulgazione storica non c’è la notizia. E quindi l’opinione, se lei la ravvede in questo articolo, è al limite espressa su un periodo storico, non su un fatto. L’impresa di Fiume non è più un fatto, giornalisticamente parlando. Johan Galtung e Mari Holmboe Ruge hanno ben spiegato che cosa è una notizia, e che cosa sia la notiziabilità di un fatto. E quale fatto sia soggetto a essere “notiziabile”. Nulla a che vedere con la storia, comunque. La notizia sta al fatto presente, le guerre puniche non sono più fatti giornalistici, come non lo è D’Annunzio e la sua “impresa”. Non so se sul libro di Travaglio spiega questa differenza o la ritiene assodata. Cordialmente

      Matteo

      • Laura Matelda Puppini

        Premetto che sono una ricercatrice storica friulana, nata nel 1951.
        La storia non può essere oggetto di costante revisione, come lei scrive, perchè riguarda un già accaduto. A me pare, semmai, che nuovi personaggi, giovani o meno, non si sa con che capacità e studi su materia tanto complessa come l’analisi storica contestualizzata di fatti ed avvenimenti, cerchino di dare una lettura personale di fatti, facendo magari voli pindarici nell’accomunarli ad altri, come nello specifico, e di fatto decontestualizzandoli. Per quanto riguarda i giornalisti che si improvvisano storici (ed il fatto storico è più che notizia, e quindi ancor più vige quanto detto da Marco Travaglio, a cui mi sono riferita per chiarire solo come, al giorno d’ oggi, mi pare che sempre meno si usi scientificità e analisi rigorosa, che accomuna chi fa giornalismo a chi è storico, pur nella diversità dei compiti), riporto pari pari una piccola parte di quanto già scritto su Storia Storie Pordenone | Il blog degli Storici del Friuli Occidentale http://www.storiastoriepn.it/blog/ ‎, come commento al mio articolo: A proposito del convegno “Sui luoghi della Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli, un progetto di turismo della memoria”: “Molto è stato scritto sulla resistenza, spesso da giornalisti. Ora il giornalista non è uno storico e può mancare di informazioni atte a pubblicare in senso scientifico. Per esempio, e preciso che non ho nulla contro Silvino Poletto, (fonte orale) Roberto Covaz e Nicola Comelli, giornalisti, non si può non notare nel volume: Gorizia al tempo della guerra, biblioteca dell’immagine, 2010, salti spazio temporali, difficoltà a seguire parti citate, che possono esser unite, così pare, da frasi dei giornalisti, che quindi ne condizionano l’interpretazione, errori grossolani: a p. 35 si confonde il btg Julio della prima brigata Osoppo con la Divisione Julia degli alpini, sempre a p. 35 si legge che il comando unico Osoppo Garibaldi – Bolla Sasso fu fatto nell’ottobre 1944, quando in tale data la fine della Zona Libera Orientale era già avvenuta e il comando unico si formò il 27 o 28 agosto 1944, i compiti dei commissari erano anche e forse in quel contesto, pure quelli di “provvedere agli aspetti logistici e di approvvigionamento del reparto” ma non erano certo i compiti principali per cui erano sorti. ( cfr. cfr. Giovanni Padoan, Abbiamo lottato insieme, partigiani italiani e sloveni al confine orientale, del bianco 1966, p.p. 41- 42). Peccato che a p. 34 del volume si citino solo questi.” e per la continuazione di detta mia analisi, lunghissima, rimando al sito ed a detto mio contributo come commento. Non so poi su che basi coloro che si definiscono revisionisti affossino magari gli studi precedenti, senza neppure averli letti e presi in seria considerazione, per inventarsi approcci nuovi e spesso anche fantasiosi. Infatti per rivedere qualcosa bisogna leggere ed analizzare il già pubblicato, contestare fonti, metodologia, contesto, e non partire dal presupposto che comunque non valga nulla e così, di riflesso, chi lo ha prodotto. I revisionisti a me paiono, spesso, venditori di nuove verità senza aver studiato a sufficienza, senza adeguata metodologia ed analisi attenta di fatti avvenimenti e fonti utilizzate che spesso deficiano, o sono dei “ sentito dire” o magari citazioni da altri che non avevano fonti. E spesso sono giornalisti che dicono di essere storici o che si sono fatti accreditare come tali. Le fonti sono basilari in storia. Invito a leggere sempre su stesso sito, quanto ho pubblicato, anche su temi di metodologia, compreso quanto so di D’ Annunzio, citato nel primo e quanto capitolo di O Goriza tu sei maledetta, fatti e fatterelli… Se non conoscete Dennis Mack Smith, e il suo volume che ho citato, vorrei proporvelo. Inoltre l’articolo su D’ Annunzio da voi proposto non è di divulgazione storica ma di interpretazione dei fatti, non sufficientemente motivata, che fa una bella differenza. Laura Matelda Puppini .

        • Gent. Laura Matelda

          lasci il giornalismo a chi è giornalista, e lasci al giornalismo decidere i propri criteri professionali – come ad esempio che cosa è una notizia, roba scritta su tutti i manuali – e consenta a chi non è un ricercatore la libertà di leggere dei libri (di storici) e raccontarne il contenuto. Legga i libri citati e vedrà che non c’è un rigo di invenzione personale. Se poi lei non condivide la lettura offerta da quegli storici, ne prendo atto. Ma rivolga a loro le sue critiche. In quattromila battute non ci può essere alcuna metodologia della ricerca storica, come comprenderà. Il mestiere del giornalista – scriva a Travaglio, le confermerà – non è un lavoro scientifico, quello è cosa dell’accademia, non del giornalismo. Il giornalismo non ha nulla di scientifico, è il suo limite e la sua forza. L’ideale sarebbe che gli storici scrivano sui giornali ma se gli storici guardano dall’alto in basso chiunque scriva della loro disciplina senza averne i “titoli”, direi che tale collaborazione diventa impossibile. Se poi a lei non piace che i giornalisti scrivano di storia, perché ovviamente non hanno la formazione dello storico (se l’avessero, non farebbero i giornalisti ma gli storici), o perché la ritiene un’indebita invasione di campo, si unisca al coro di quelli che amano mettere veti, paletti, regole al giornalismo. Ripeto: quanto scritto nell’articolo in questione è riportato da altri storici. Se la prenda con loro. Non è questa la sede per combattere battaglie, tanto più per interposta persona. Sono però lieto che lei abbia voluto intervenire, segno che l’articolo ha fatto il suo dovere: ha mosso al dibattito, al contraddittorio, che è il sale del giornalismo.
          Cordialmente

          Matteo

          • Laura Matelda Puppini

            L ‘articolo non l’ho pubblicato nè scritto io, e non si può pubblicare, per poi non accettare osservazione alcuna, scrivendo di prendersela con gli autori. “Lasci ai giornalisti fare il giornalista”, Lei scrive. Che significa, allora, fare oggi il giornalista? Cosa significa per lei mettere veti ai giornalisti? Sostenere che non tutto è lecito, neppure nel giornalismo? Che neppure un giornalista può scrivere “puttanate”, opinioni personali infondate, magari cercando, e mi riferisco a discorso generale, uno scoop? “Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e all’elaborazione di notizie (…) differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della dovuta attenzione e considerazione.” » recita la sentenza della Cass. Civ., sezione lavoro, 20 febbraio 1995, n. 1827.
            Ora la tempestività non presuppone l’analisi e lettura di tutto quanto precedentemente prodotto sull’argomento, e studi analitici e comparativi puntigliosi, essendo l’informazione giornalistica per sua natura diversa dallo studio storico.
            Posso dire, invece, che alcuni vostri articoli relativi all’ attualità mi sembrano buoni.

          • Gent. Laura Matelda

            la critica è benvenuta, e se lei ritiene che l’articolo riporti opinioni infondate, ne prendo atto come ne prendono atto gli altri lettori. Ho già chiarito da dove proviene quanto qui raccontato. Quello che si fatica ad accettare non è la critica, ma il fatto che un lettore arrivi sventolando un libro di Travaglio (ma foss’anche stato di Vespa, Minzolini, o chicchessia) additando quelli che definisce “ignoti, pare, giornalisti” colpevoli di volere “con le opinioni battere i fatti”. Insomma, si è un pochino oltre la critica: criticare un articolo è un conto, suggerire malafede o improvvisazione (“pare”) è un altro. Il primo caso riguarda un oggetto, il secondo un soggetto. E il soggetto potrebbe risentirsi. Non so se qualcuno ha mai criticato, recensito, suoi lavori ma immagino che nessuno si sia mai permesso di ritenere i suoi lavori scritti “pare” da uno storico. Mi si dice da più parti che è necessario accettare ogni critica nel nostro lavoro, ma dissento. Accetto la critica sul contenuto, e ne faccio tesoro, come nel suo caso. Ma non i colpi bassi di chi, siccome scrive a un giornalista o a un giornale, si permette toni irrispettosi. Qualcuno (e faccio un discorso generale) riterrà che siamo “morti”, zombie, feccia del creato, parassiti della cultura, e quindi pensa di poter accusare, insinuare, a volte persino insultare. Ma io continuo a ritenere che una persona civile si distingua da come si rivolge a uno sconosciuto del quale, magari, non condivide un’opinione ma che resta una persona meritevole di un trattamento rispettoso, come tutte. Non c’è D’Annunzio che tenga, non è mia abitudine nascondere i fatti (“batterli con le opinioni”). E non accetto simili valutazioni. Sulle questioni storiche, avrà senz’altro ragione lei. Cordialmente

            Matteo

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