Nell’estate del 1944 i polacchi si ribellarono contro l’invasore nazista. Per due mesi lottarono strenuamente con lo scopo di liberare Varsavia prima dell’arrivo dell’esercito russo, giunto ormai alle porte della capitale dopo le vittorie sul fronte orientale.
L’insurrezione fallì. La città fu completamente rasa al suolo per volere di Hitler.
L’armata rossa, con i suoi carri armati schierati sulla riva destra della Vistola, assistette alla carneficina senza intervenire in aiuto dei polacchi: rimase immobile fino a quando la rivolta non fu repressa nel sangue. Solo nel gennaio del 1945 i russi fecero il loro ingresso in una Varsavia spettrale, rasa completamente al suolo e ormai abbandonata dai nazisti.
Stalin non mosse un dito in soccorso della rivolta nazionalista per un preciso scopo: la resistenza interna non comunista polacca avrebbe potuto ostacolare le sue mire sulla Polonia. Lasciò che fossero i tedeschi ad annientarla, consentendo un orrendo massacro a favore della ragion di stato sovietica e dei suoi obiettivi.
In questi giorni la città di Kobane, situata a nord della Siria in prossimità del confine turco, abitata al 90% da una popolazione di etnia curda e sotto controllo curdo dal 2012, è assediata dai Jihadisti dell’ISIS.
I carri armati turchi, benché la Turchia faccia parte della coalizione internazionale contro l’ISIS, assistono immobili, appena al di là del confine, alla feroce battaglia lasciando le Unità di protezione del popolo (Ypg), la principale forza curda che difende la città (supportata dai raid aerei americani) sola nel tentativo di respingere l’assalto.
A dispetto delle pressioni internazionali, Erdogan non muove un dito in aiuto dei combattenti curdi e sta consentendo, così come fece Stalin nel 1944, un orrendo massacro per un calcolo basato sulla ragion di stato turca: il timore del leader turco è che i curdi siriani, in caso di vittoria sugli islamisti, riescano ad ottenere un’autonomia simile o equivalente a quella del Kurdistan iracheno.
Il presidente turco teme un risveglio dell’ambizione indipendentista dei milioni di curdi che vivono nel paese della mezzaluna (il 15-20 % della popolazione è di origine curda) che porterebbe ad una drammatica spaccatura del paese.
La Turchia ha posto due precise condizioni per intervenire a difesa di Kobane: la creazione di una no-fly zone e di una zona cuscinetto alla frontiera turco-siriana, in cui poter inviare le centinaia di migliaia di rifugiati siriani oggi ospitati in territorio turco; la coalizione internazionale deve far cadere il governo di Bashar al Assad prima che la Siria si smembri definitivamente e il suo Kurdistan si dichiari indipendente.
Obama è restio ad accettare queste condizioni. Attaccare Damasco significherebbe schierarsi dalla parte dei sunniti e contro gli sciiti nella guerra religiosa che sta sconvolgendo il Medio-Oriente e vede contrapposte due grandi potenze come l’Arabia Saudita e l’Iran. Vorrebbe dire per Washington farsi coinvolgere in un conflitto regionale destinato a durare decenni. Gli USA si limitano a supportare i curdi con raid aerei contro l’ISIS, un aiuto che, unito alla straordinaria resistenza dei combattenti delle Unità di Protezione del Popolo sembra in queste ore aver ribaltato le sorti di una battaglia che fino a pochi giorni fa pareva persa. La bandiera nera del Califfato non sventola più su Kobane e sembra che i guerriglieri curdi stiano riprendendo il controllo di gran parte della città.
Il gioco d’azzardo di Erdogan è assai rischioso anche sul fronte interno.
Nelle ultime due settimane la rabbia dei curdi turchi, delusi e furenti per il mancato aiuto ai loro cugini siriani, è esplosa nelle strade scuotendo la Turchia. Le violenze si sono propagate in tutto il territorio turco, provocando più di trenta morti e centinaia di feriti.
Manifestanti curdi si sono duramente scontrati con nazionalisti turchi, con simpatizzanti filo-Isis dei partiti ultrà islamici (in forte crescita anche in Turchia) e con le forze di polizia di Ankara chiamate a mantenere l’ordine con metodi al solito vigorosi, ben conosciuti durante la recente rivolta di Gezi Park.
Erdogan negli ultimi anni si era mostrato tollerante, rilasciando concessioni alle istanze dei curdi e avviando un dialogo con la guerriglia curda che aveva portato ad un negoziato conclusosi con una tregua stipulata nel marzo 2013 tra governo e PKK.
Le decisioni attuali del leader turco di non intervenire a difesa di Kobane rischiano seriamente di riaccendere la spinosa questione curda nel peggiore dei modi, mandando in fumo il lungo e faticoso processo di pace con il PKK. I capi del gruppo armato accusano più o meno velatamente il governo turco di aver finanziato e aiutato la crescita dell’ ISIS e di tessere rapporti con lo Stato Islamico.
La tensione nel paese della mezzaluna è alle stelle. Per la prima volta dalla tregua i caccia di Ankara sono tornati a bombardare obiettivi del PKK nel sud est della Turchia.
Il leader del PKK Abdullah Öcalan , dal suo carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali ha avvertito: se Kobane cadrà sarà la fine del processo di pace avviato due anni fa per porre fine a un conflitto che in trent’ anni ha causato oltre quarantamila morti tra turchi e curdi.
Nel corso del mio lungo viaggio in Asia, a cavallo fra il 2010 e il 2011, ho avuto modo di conoscere il popolo curdo.
Durante il periodo trascorso in Iran, incuriosito da quanto avevo letto su di loro, ho deciso di uscire dalle principali rotte turistiche e visitare il nord ovest del paese, le città di Marivan e Sanandaj, dove la maggior parte della popolazione è di etnia curda.
Varcata la frontiera tra Iran e Turchia, il viaggio è proseguito nel “Kurdistan turco”: la città di Van con il suo splendido lago; Diyarbakir, situata sulle sponde del fiume Tigri, con il suo centro storico protetto da mura millenarie; Mardin con la sua meravigliosa architettura araba; la città santa di Sanliurfa, celebre per aver dato i natali al profeta Abramo.
Un viaggio a tappe attraverso la terra della mezzaluna, fino a Istanbul, dove milioni di curdi sono immigrati in cerca di fortuna dalle loro città natali.
Mi interessava, al di là della Grande Storia di cui si può leggere sui libri, conoscere le piccole vicende degli uomini, farmi raccontare le storie personali. Volevo osservarne gli usi e i costumi. Carpire, attraverso una esperienza diretta e personale, lo spirito di questa gente. Capire, al di là dell’origine etnica, le differenze tra curdi che vivono in paesi differenti, come le diverse vicende storiche abbiano influito sulle loro vite, il loro carattere, abbiano segnato i loro volti.
Un viaggio lento, per quanto più possibile profondo, nell’anima di un popolo che non trova pace, che vive in prevalenza tra Turchia, Iran, Iraq e Siria e da più di un secolo sogna uno “Stato Curdo”.
L’incredibile, commovente, ospitalità dei curdi iraniani, i loro affettuosi saluti, gli accoglienti sorrisi, mi sono rimasti nel cuore. Una continua gara tra le persone per ospitarmi nelle loro case, farmi da cicerone nelle loro città, offrirmi lo squisito pane caldo appena uscito dai forni. Incalcolabili le offerte di tè, accompagnato da squisiti dolci locali, a cui era difficile resistere.
Un’ospitalità a volte perfino imbarazzante, per quanto sincera e disinteressata, accompagnata da una gran curiosità nei miei confronti, una gran voglia di farmi domande, di ascoltare le mie storie “esotiche”, quando le conoscenze linguistiche ce lo consentivano. Altrimenti si comunicava con lo sguardo, e ci si capiva.
Un’atmosfera di pace e rilassatezza, almeno per quanto concerne le sensazioni percepite da un viaggiatore come me, di passaggio, che seppur curioso e indagatore di natura, non può che rimanere in superficie.
La vita di un curdo, in Iran non è per nulla facile ma la sofferenza, per quanto grande sia, di fronte all’ospite viene nascosta da un sorriso.
Un’atmosfera differente, al di là della frontiera, in territorio turco, dove il clima percepito, nonostante l’incontro con numerose persone piacevoli e ospitali, fu diverso.
Nella città di Diyarbakir, cuore pulsante della lotta curda, la tensione nell’aria era palpabile. Me ne accorsi fin da subito, perdendomi nelle incantevoli viuzze della città vecchia. Edifici fatiscenti, colori vivi, panni stesi da balcone a balcone. Un’ atmosfera simile ai nostri quartieri “difficili” del sud Italia. Scritte su muri scrostati, inneggianti alla lotta curda, al PKK. Piccoli “scugnizzi” locali, ragazzini di dieci/undici anni organizzati in “bande”, sempre nei miei paraggi, impegnati a farmi scherzi più o meno simpatici.
Materializzarsi alla mie spalle all’improvviso, spintonandomi nell’istante in cui stavo per scattare una foto era il loro scherzo preferito. Riuscire a centrare l’obiettivo della mia reflex con una piccola pietra un altro bel passatempo. Un gioco e una lotta psicologica persino divertente all’inizio. Alla lunga, francamente, un po’ snervante.
Un clima decisamente più rilassato a Van, Mardin, Sanliurfa. Città meravigliose da visitare, un buon feeling con la popolazione. Ma la differenza, arrivando dal Kurdistan iraniano, era evidente, non lo nascondo.
Il mio personale viaggio attraverso lo spirito di questo popolo terminò a Istanbul, dove milioni di curdi vivono e lavorano. Non si concluse durante quel viaggio, troppo veloce fu il mio primo incontro con la metropoli turca, bensì a distanza di tre anni quando, nel corso di tre mesi passati sul Bosforo, ebbi modo di conoscere molte altre persone di origine curda.
Centinaia di incontri piacevoli. Un incontro singolare: nel quartiere di Balat, durante una passeggiata nel cuore della vecchia Istanbul, un ragazzino sulla quindicina mi si avvicinò. Parlammo un po’,scherzammo, più a gesti che a parole. Aveva la faccia sveglia di chi è stato costretto ad arrangiarsi, sempre e comunque. Mi disse che era originario di Diyarbarkir.
D’improvviso, dopo avermi rivelato la sua origine, il suo umore cambiò, divenne molto serio, fece il segno del fucile e mimò una sparatoria. Un messaggio inequivocabile: lui da grande avrebbe lottato per la causa curda. Mi salutò dandomi “un cinque”, lasciandomi assorto nei miei pensieri.
A distanza di pochi minuti, nel preciso istante in cui stavo per scattare una foto, il “piccolo guerrigliero” ricomparve improvvisamente alle mie spalle e mi tirò, gratuitamente, un solenne calcio! Una buona mira stavolta, di gran lunga migliore di quella sbilenca dei suoi concittadini che, tre anni prima, avevano “graziato” la mia reflex e/o la mia testa.
Ridendo a crepapelle per la bravata, alla velocità della luce, così come era comparso, si perdette nel labirinto di vicoli del suo quartiere, tra i muri scrostati, i panni stesi sui balconi delle tipiche case in legno. Lasciandomi, ancora una volta, assorto nei miei pensieri.
Pensieri e ricordi che tornano prepotenti oggi, alla luce delle recenti vicende siriane che si riflettono sul sud est della Turchia, con le città di Dyarbakir, Van, Mardin, Sanliurfa, salite alla cronaca per gli episodi di violenza che hanno provocato morti, feriti, edifici dati alle fiamme. Città nelle quali le autorità, per la prima volta dal 1992, hanno imposto il coprifuoco, così come in alcun quartieri a prevalenza curda di Istanbul ed Ankara.
Benvenuti alla scoperta dei curdi, un popolo martoriato dalla storia…qui il reportage fotografico
Ottimo articolo e bellissime le foto del reportage.
Personalmente già all’inizio dell’intervento della coalizione anti isis avevo nutrito dei forti sospetti sul l’intervento della Turchia al fianco dei curdi e sinceramente non potevo immaginare che i turchi dopo averli combattuto per secoli potessero mai armarli.
Ma gli USA lo han sempre pensato e lo stanno facendo in fondo il loro motto è “il nemico del mio nemico è mio amico”, ma per i turchi è ben differente.
Il timore di una rivendicazione e della nascita di uno stato Kurdo è troppo forte, non ci sono americani che tengano!
Infatti l’insofferenza tra governo turco e degli States è palpabile da settimane .