(da Un’anima e tre ali) Nacque dalla modesta famiglia di un ferroviere nell’anno 1905. Studiò filologia classica e inglese nella Polonia ormai libera e riunificata. Debuttò già nell’anno 1922, ma la prima opera che lo rese famoso fu una dissertazione universitaria, dedicata a un certo poeta inglese della Restaurazione, illustrata con una scelta di poesie di questo poeta nella traduzione polacca. Ben presto si scoprì che il poeta non era mai esistito, e che tutti i dati e i poemi erano stati inventati dallo studente Gałczynski. Era ubriaco di fantasia, ed è forse vero che il suo secondo strano nome, Ildefons, se lo sia dato lui stesso. La sua fantasia era apocalittica e insieme grottesca; le immagini che creava erano vicine ai quadri di Hieronymus Bosch. Ciò appare evidente specie nelle sue poesie della serie “catastrofica”, come anche nelle “Profezie” – piene di garbo e di follia, o nel poema meritatamente famoso – “La fine del mondo”. Esse riassumono e rappresentano i tratti più salienti della poesia di Gałczyński, ma forniscono soprattutto la misura del suo umorismo.
Ed ecco la seconda e forse più rilevante prova dell’originalità di questa poesia. Gałczyński è irresistibilmente spiritoso. Le sue grottesche e vulcaniche visioni, considerazioni e battute sono tutte piene di una grazia inconfondibilmente poetica. In modo molto evidente esse illustrano la parentela costruttiva tra una metafora poetica ed una riuscita battuta umoristica. Gałczyński era un satirico dotato di una mira infallibile. Fu lui che innestò la tecnica del surrealismo nella satira polacca. Basti leggere poesie come: “Un cavallo in platea”, o il ciclo delle esilaranti scenette teatrali “Il teatrino dell’oca verde”.
Queste particolarità lo legano alla importante e più autorevole corrente d’avanguardia nella prosa e drammaturgia polacca. I suoi rappresentanti più noti sono: Stanisław Ignacy Witkiewicz e Witold Gombrowicz. L’ironia è l’effettivo substrato delle loro opere, peraltro così diverse. Essi adoperarono la beffa come ancora di salvezza della loro dignità, nell’imminenza della catastrofe, e con la coscienza dell’assurdità della vita.
Gałczyński invece cercò la salvezza anche nella solidarietà con l’uomo della strada. La sua felice maniera stilistica e la popolarità delle sue poesie, già grande prima della guerra, lo spinsero verso un certo qualunquismo. Egli ruppe con la lingua curata e con la tradizione intellettuale nella poesia, e fu quindi naturale che schernisse coerentemente l’intellighentzia, portatrice di queste tradizioni. Egli divenne così oggetto di tentazioni da parte della destra nazionale polacca, nemica, come tutte le destre, dell’intellighentzia, delle discussioni e dei ragionamenti. Per un breve periodo, fino al termine degli anni trenta, questa corrente affascinò Gałczyński col suo dinamismo artificioso, con lo scherno dell’apparente logorio delle tradizioni democratiche della classe intellettuale, ma particolarmente con l’adesione della gioventù. L’aspirazione ossessiva di Gałczyński fu il legame stretto coi lettori. Egli faceva tutto senza alcun cinismo e sempre con la maestria di un “buon artigiano”, come lui stesso amava definirsi.
Sopraggiunse la guerra. Nel 1939 la Polonia venne assalita e distrutta proprio da quelli che erano serviti da esempio alla destra. Gałczyński che era soldato semplice, finì in un campo di prigionia di rigore. Proprio lì, nell’Altengrabow, nacquero le commoventi poesie alla moglie adorata Natalia e le liriche che mezza Polonia ricopiava e diffondeva clandestinamente.
A cinque anni dalla liberazione, egli tornò nella patria socialista e approfittò di una delle reali possibilità sorte col cambiamento di regime: al posto del popolino, poteva avere ora il popolo stesso come interlocutore. Così almeno egli sperava. Le sue poesie, infatti, acquistarono una risonanza assai ampia, sebbene ancora non generale. Malgrado le limitazioni tematiche imposte e il crescente oscuramento dell’atmosfera sociale in quegli anni, Gałczyński riuscì a pubblicare, una dopo l’altra, diverse raccolte di poesie, come: “La carrozza incantata” e “Le vere”, i poemi “Niobe” e “Wit Stwosz”, le commedie “La notte dei miracoli” e “Il ballo degli innamorati”, un nuovo divertentissimo libretto per l’”Orfeo all’inferno”. Scrisse inoltre testi di canzoni popolari, un ciclo di spassosi feuilleton: “Le lettere pazzarelle”, e tradusse Shakespeare. Venne lasciata ai poeti la terra appena sufficiente per un vaso, ma Gałczyński riuscì a cavarne un intero giardino pubblico.
Morì colpito da infarto il 6 dicembre 1953, proprio quando cominciavano a soffiare le prime attese ventate del disgelo nell’atmosfera politica del paese. Di solito, un poeta che muore celebre viene ben presto dimenticato, e bisogna attendere molti anni per la rinascita della sua fama. Gałczyński è uno dei pochissimi scrittori la cui popolarità non solo continua, ma cominciò a crescere subito dopo la morte e, nel suo caso, occorre aggiungere, a crescere con la forza di una valanga.
Grazie a Paolo Statuti, sono state tradotte in italiano alcune opere tra le più amate nella patria del poeta, e va sottolineato che la versione è tale da far capire le bellezze tipiche e le componenti melodiche dello stile di Głaczyński. Chi scrive è stato amico e ammiratore del poeta, ed ha un solo desiderio: che anche i lettori italiani si rendano conto del perché la sua poesia ha ridato a noi polacchi la fiducia nel significato e nella serietà della bella arte dello scrivere.
Confesso di aver letto solo poche opere di Gałczyński, un po’ per questioni di tempo e un po’ perché un’adeguata comprensione della sua poesia necessita di una padronanza della lingua polacca superiore alla mia. Ho notato analogie con altri autori della sua generazione (di altre aree linguistiche) che come lui avevano subìto la fascinazione del dadaismo, del surrealismo e di svariate forme di sperimentazione nel periodo interbellico. Dispiace, e molto, il fatto che ci abbia lasciato proprio nel momento in cui, con la morte di Stalin avvenuta solo pochi mesi prima, avrebbe forse potuto cominciare a godere di una maggiore libertà espressiva, o quanto meno a perlustrare sentieri poetici ricchi di allusioni e di metafore che prima erano pericolose.