SERBIA: Basaglia a Belgrado. La salute mentale tra stigma e ospedali

di Natasha Ceci. Foto di Mattia Cacciatori

Noi abbiamo una psicosi ma non siamo psicopatici. Questi non si curano e si camuffano nella società”. Dragan, 52 anni, così inizia a raccontarsi seduto sul divano della sua minuscola casa nel quartiere di Borča, estrema periferia di Belgrado. Per trent’anni è entrato e uscito periodicamente dai reparti degli istituti psichiatrici per lenire la malattia di cui soffre anche sua moglie Marija, 37 anni. “All’inizio i medici mi hanno detto che era depressione maniacale, poi invece ero bipolare. Ora pare abbia una forma di schizofrenia” dice Dragan, non senza ironia.

In Serbia è in corso un processo di deistituzionalizzazione della malattia mentale seppure ancora acerbo, lento, dove è molto presente una forte medicazione e uno stigma sociale che è anche culturale. Nel 2007 fu elaborata una strategia nazionale e un piano d’azione per la riforma della sanità mentale che mirava a ridurre il numero dei posti letto ed a incrementare i servizi nel territorio. Della chiusura degli istituti psichiatrici (6 in tutta la Serbia) se ne accenna nella Strategia ma non concretamente anche nel Piano d’Azione. Nel report di Mental Health Europe (MHE) del 2012 la Serbia denota una disponibilità totale di circa 6.247 posti letto tra cliniche, istituti, e reparti psichiatrici negli ospedali.

Per il ministro della salute, la psichiatra Slavica Đukić Dejanović, il processo di de-istituzionalizzazione fa parte delle politiche strategiche del governo e l’obiettivo è di ridurre il numero dei pazienti negli istituti: “Nel 2007 avevamo circa 4000 degenti con disturbi gravi, ora siamo sui 3000. Stiamo lavorando per preparare il personale negli istituti alla transizione, con la collaborazione di operatori sociali, psicologi e comunità locali. Investiamo su nuove forme di cura e su tutto ciò che non stigmatizzi la persona, anche grazie ai fondi di preadesione UE di cui disponiamo in attesa di entrare in Europa”. Ma basta togliere posti letto se non si sa bene dove andare? E basta delegare il problema alle case farmaceutiche o alla sola psichiatria?

Frantz Fanon, in una lettera del 1956 in cui dava le dimissioni come direttore del manicomio di Algeri, scriveva: “La psichiatria è la tecnica medica che si propone di permettere all’uomo di non essere più straniero al proprio ambiente … la funzione di una struttura sociale è di instaurare delle istituzioni impregnate dello spirito dell’uomo”. Queste considerazioni potrebbero essere un buon punto di partenza.

Paolo Serra è uno psichiatra aretino e consulente di Caritas Serbia per il  loro progetto inerente alla salute mentale nei Balcani in corso dal 1998. Serra ha partecipato al processo che in Italia ha portato alla chiusura degli istituti psichiatrici con la legge Basaglia.Bisogna il più possibile lasciare spazio alla psicoterapia e alle strutture alternative come le case famiglia, i centri diurni”, sostiene Serra, “non basta solo una risposta medica, ma è fondamentale una presenza di strutture sul territorio, una presenza ancora molto carente in Serbia”. Per arrivare a questo non è possibile prescindere dai servizi sociali o dal ruolo delle politiche amministrative.

C’è anche la questione inerente a quale sia il ministero di competenza: quello per gli affari sociali investe nella deistituzionalizzazione per i disabili ma non per gli istituti psichiatrici, che dipendono invece dal ministero della salute. Il tema e le difficoltà politiche e sociali nell’affrontarlo sono notevoli per un Paese che timidamente sta muovendo dei passi verso l’inclusione nell’Unione Europea. Inoltre la questione della diagnosi nella psichiatria è diversa da quella del resto della medicina così come il concetto di “gravità”, senza dimenticare il peso delle condizioni non solo economiche ma anche inerenti all’accettazione in famiglia, e in questo caso, anche al divario tra città e campagna.

La casa di Dragan e Marija (nella foto) è circondata da libri e icone ortodosse. In un angolo, accanto al divano, sonnecchiano dei pappagalli in una gabbia e sul tavolo una sfera fosforescente cromatica con dell’acqua pare che purifichi l’ambiente e lo renda salubre. Su una mensola della libreria sono poggiate boccette di smalto per unghie che Marija utilizza per dipingere, anche. Non mancano saggi sugli scacchi:Posso giocarci a occhi chiusi”, dice Dragan.

Come siamo arrivati a tutto questo? “Quando i miei amici ascoltavano i Beatles io mi facevo domande filosofiche e mistiche sull’esistenza, andando di monastero in monastero quando all’epoca erano vissuti esclusivamente come monumenti”, continua, “a 17 anni mi sono ammalato e ho vissuto un’ esperienza mistica, sono stato tre giorni in estasi e poi in ospedale. Avevo anche iniziato a studiare ingegneria, poi volevo fare teologia e prendere i voti ma a causa della malattia non ci sono riuscito”. La religione è un aspetto portante nella vita di Dragan e Marija, tanto che si fa fatica talvolta a separare biografia e credo: un rapporto profondo, totale, studiato che a tratti rasenta il fanatismo ma con una adesione sincera che è quasi un’eco di un altro mondo.  Le icone appese sui muri, i libri religiosi in cirillico, la pratica del digiuno, le messe nella chiesa del quartiere, potrebbe essere tutto questo il loro equilibrio raggiunto.Io non voglio essere una persona perfetta, ma solo essere in contatto con Dio. Già a 15 anni volevo andare da uno psicologo, avere qualcuno che mi ascoltasse” dice Marija mentre prepara il caffè facendosi largo tra le stoviglie della cucina affastellate sul lavabo.

L’ultima volta di Dragan in un ospedale risale al 2006, Marija invece nell’ultimo anno ha trascorso qualche mese nei reparti dell’ospedale centrale Laza Lazarević, la  cui sede di Padinska Skela, a 30 km dal centro,  è uno dei sei istituti della Serbia (gli altri sono a Kovin, Vršac, Niš, Novi Kneževac e Stari Lec, un piccolo villaggio nella Vojvodina). Entrambi hanno vissuto l’esperienza della contenzione – Dragan, che pesa più di 90 chili, è stato legato al letto due volte per tre giorni di seguito, a volte anche preventivamente, per timore di reazioni violente – e dormito con coperte e lenzuola infestate da pidocchi. In questi ultimi anni forse qualcosa è cambiato, grazie anche al grande scandalo portato alla luce dall’organizzazione americana Disability Rights International (DRI) nel novembre 2007 che mostrava fotografie di adulti e ragazzi in condizioni di tortura effettiva e che ha portato il governo serbo a promettere miglioramenti della situazione.

Il Laza, nel centro della città, applica terapia di urgenza e dispone di circa 380 letti; quelli nel reparto di cura intensiva (quattro tra la sede centrale del Laza e quella a Padinska Skela, dove alcuni padiglioni stanno per essere trasformati in piccoli appartamenti, come “case famiglia”) sono 12 e in questa area i pazienti rimangono, in teoria, massimo tre giorni. Alcune camerate dispongono di vetri di osservazione al di là dei quali sono presenti infermieri, nel reparto maschile i bagni non hanno porte per motivi di sicurezza. Dal 2012 c’è una sezione dedicata solo agli adolescenti tra i 14 e i 18 anni e attualmente ce ne sono circa 20 tra ragazzi e ragazze. Senza dubbio sono le loro storie a dare l’impatto più sofferto, nei drammi familiari tra tentati omicidi e autolesionismi. La desolazione e la solitudine attraversa anche gli altri reparti dove non c’è molto altro da fare che fumare davanti alla tv o attorno a un tavolo mentre si gioca ai dadi. Ogni sorriso rivolto per caso a qualcuno seduto in un angolo ha l’effetto di una vera epifania e di immediato sollievo. “Quando torno a casa?”, chiede un giovane, “presto” risponde qualcuno.

Nel cortile dell’ospedale sorge il centro diurno gestito dalla dottoressa Zorka Popovic. Il centro, uno dei nove presenti in città, è forse un esempio di una possibile transizione verso la de-istituzionalizzazione, è finanziato dallo stato e lo frequentano circa 80 persone le cui psicosi acute sono state già curate. Naturalmente se le condizioni di salute peggiorano si torna in ospedale. Dopo le stanze di cura intensiva del Laza questo centro sembra spiccare come un’eccellenza ma la solitudine di chi lo frequenta è solo un po’ smorzata. Medici, operatori sociali e psicologi scandiscono la giornata: alle 7.30 si fa colazione, poi si prendono i farmaci necessari e dalle 9-10 si fa terapia occupazionale oltre a organizzare gite ed escursioni fino al primo pomeriggio, quando il centro chiude. “Non pratichiamo cure intensive o degenze, e credo che un centro come questo possa costare meno rispetto a un istituto. Diamo molta importanza al controllo del comportamento e il primo passo verso la società di chi soffre di disturbi mentali è quello di accettare la malattia, assieme al valore della prevenzione, elemento fondamentale per evitare l’ingresso in un istituto” dice la Popovic. Questo è il cuore del problema: finché un disturbo mentale di qualsiasi tipo verrà percepito come una vergogna assoluta i passi avanti saranno lenti e claudicanti.

Dragan frequenta il centro diurno e segue corsi di teatro assieme alla moglie tramite l’associazione Duša (anima) di cui è stato fondatore e presidente per un periodo. L’organizzazione esiste da cinque anni, conta circa 60 membri e ad ognuno non viene chiesta la diagnosi ma è semplicemente accolto con rispetto e calore umano: non un dettaglio in una società civile ancora chiusa e restìa ai cambiamenti. Le attività spaziano dai laboratori di psicodramma, corsi di informatica, inglese,  al cineforum e questo progetto é inserito nella più vasta Rete NaUM, una rete di associazioni di utenti di servizi psichiatrici provenienti da tutta la Serbia. Frequentare un laboratorio teatrale è una via per disinnescare lo stigma sociale tra una visita medica e la mole di farmaci diversi che Dragan assume con Marija durante il giorno.  Eppure la loro è una vita normale e per certi versi quasi fortunata. Vivono utilizzando la pensione familiare dei genitori di Dragan che possiede anche un modesto appartamento in affitto da cui ricava una rendita. Ma lui non è idoneo al lavoro, nonostante a volte abbia dato in nero lezioni di matematica e fisica per arrotondare. Come potrebbe avere un lavoro? Se in un colloquio gli chiedessero conferma di adempimento del servizio militare, Dragan dovrebbe dire no motivando la risposta, e i giochi saranno immediatamente chiusi. Tuttavia non ha mai avuto comportamenti aggressivi verso nessuno o infranto qualche legge.

Il ponte Branko attraversa il fiume Sava fino a Novi Beograd. Nel 1984 il poeta Branko Ćopić vi si uccide gettandosi in acqua e lasciando dietro di sé un alone romanzesco sul luogo, tanto che anche oggi pare esserci qualche imitatore, come quel tale, stanco di vivere, che tenta di lanciarsi legato a una corda perché non sa nuotare. Forse la malattia mentale è una barzelletta. Un ospite del centro diurno, un critico letterario, è sicuro che fino a un certo punto ci sia la realtà, e lo afferma delimitando lo spazio attorno a lui con una mano, oltre quel punto giura che non sa cosa possa esserci. Sì, si potrebbe ridere nel frattempo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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