I Progress Report annuali della Direzione Generale Allargamento (DG ELARG) della Commissione europea, pubblicati ogni anni a metà ottobre, sono stati negli ultimi anni soprannominati No-Progress Report, poiché i paesi dell’area sembravano non dare particolari soddisfazioni ai burocrati europei. Il 2013 è stato, soprattutto nella sua prima metà, un anno insperatamente positivo per la regione. Nei suoi rapporti di fine anno, la Commissione dovrebbe raccomandare la concessione dello status di paese candidato all’Albania, mentre le relazioni con Serbia, Kosovo e Montenegro proseguono il loro cammino. Solo Macedonia e Bosnia restano al palo, a questo giro, mentre è incerta la posizione della Turchia.
In primis, c’è un paese in meno nella lista d’attesa. La Croazia è entrata a pieno titolo nell’Unione dal 1° luglio, e nonostante la maggioranza degli altri stati membri abbiano introdotto un periodo transitorio fino al 2015 prima di concedere ai lavoratori croati la possibilità di accedere ai propri mercati del lavoro. Per quest’anno, dunque, la Commissione avrà un rapporto in meno da produrre.
Scivolando verso sud, la Bosnia ed Erzegovina sembra confermare invece l’indicazione del No Progress Report. Anche quest’anno, i politici bosniaci non sono riusciti ad accordarsi su una riforma della Costituzione di Dayton che porti la Bosnia a conformarsi con la sentenza Sejdic-Finci della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2009, relativa all’uguaglianza dei diritti politici per i cittadini che non fanno parte dei tre “popoli costituenti” del paese (serbi, croati e bosniaco-musulmani) – un argomento di cui EastJournal si è occupato a lungo, in particolare nel primo numero della rivista Most. L’UE ha fatto la voce grossa sulla questione, arrivando a minacciare di non riconoscere le elezioni del 2014 se non ci dovesse essere una riforma, e iniziando a congelare la metà dei fondi di pre-adesione per il paese. Ma invano. Tanto che ultimamente il think tank ESI è arrivato a chiedere che l’UE lasci perdere la questione Sejdic-Finci, come nel 2009 abbandonò la richiesta di riforma unitaria della polizia. Secondo l’ESI, si tratta di una questione alla fin fine marginale, che non giustifica il rischio di mettere a repentaglio il progresso della Bosnia verso l’integrazione europea. Nel frattempo, altri requisiti europei, come la tenuta del censimento dopo 22 anni dall’ultimo, stanno venendo rispettati, mentre le proteste estive della bebolucija hanno dimostrato l’esistenza di una società civile che va oltre le frontiere etniche e che ha bisogno del sostegno, anche finanziario, dell’Europa unita. La Bosnia ha firmato un Accordo di stabilizzazione ed associazione (ASA) con l’UE, ma questo non è ancora entrato in vigore. Il paese non ha presentato candidatura di adesione ed è ancora lontano dall’avviare i negoziati.
Passando oltre, la Serbia è oggi in attesa di avviare i negoziati di adesione all’UE. Dopo l’accordo di aprile sulla normalizzazione delle relazioni con Kosovo, Belgrado ha ricevuto l’ok di massima del Consiglio europeo per aprire i negoziati “entro gennaio 2014” (ma in principio anche prima). Il rapporto della Commissione non dovrebbe contenere particolari indicazioni, se non un monitoraggio della messa in atto dell’accordo, in vista delle elezioni amministrative in Kosovo del 3 novembre.
Idem per il Montenegro, che ha già iniziato i negoziati di adesione partendo dai capitoli 25 (Scienza e ricerca) e 26 (Educazione e cultura): non certo i più difficili per la piccola repubblica adriatica, indicati in verde nello screening preliminare della Commissione. Il difficile verrà però presto, non appena Podgorica dovrà aprire i prossimi capitoli, il 23 (Sistema giudiziario e diritti fondamentali) e il 24 (Giustizia, libertà e sicurezza), di colore rosso accesso. Qui il “regno di Djukanovic”, che non ha ancora visto una sola alternanza al potere dai primi anni ’90, dovrà mostrare di fare sul serio nella lotta alla corruzione e al malaffare.
Ad est, il Kosovo attende l’avvio dei negoziati per la firma di un accordo ASA. Pristina è l’ultima capitale della regione a non avere una relazione contrattuale con Bruxelles, il che ha finora impedito il cammino europeo del più giovane degli stati post-jugoslavi, a partire da questioni concrete come la liberalizzazioni dei visti (i kosovari restano gli ultimi europei ad aver bisogno di un visto per recarsi nello spazio Schengen) e la libera circolazione delle merci nell’area Cefta. I negoziati dovrebbero iniziare già da metà ottobre, e potrebbero concludersi entro la prossima primavera.
Per quanto riguarda la Macedonia, infine, purtroppo il paese è ancora bloccato nel suo cammino d’integrazione dalla disputa bilaterale con la Grecia sulla questione del nome ufficiale della repubblica, cui si è aggiunta recentemente anche la Bulgaria. La Commissione, per l’ennesima volta, raccomanderà al Consiglio l’apertura immediata dei negoziati di adesione (la Macedonia è candidata all’adesione sin dal 2005) ma con altrettanta probabilità il Consiglio europeo di dicembre non accoglierà il suggerimento. I negoziati sulla questione del nome, condotti dall’americano Matthew Nimetz, sembrano di nuovo aver raggiunto un punto morto, con la Grecia disinteressata a riattizzare una questione dai risvolti nazionalistici in un momento di estrema debolezza politica.
L’unico paese dei Balcani che ha effettivamente qualcosa da aspettarsi da questa tornata di Progress Report è l’Albania: il paese delle aquile si è visto rifiutare più volte lo status di paese candidato da parte della Commissione europea, dopo aver deposto la propria candidatura nel 2009, per via della situazione di scontro politico all’interno del paese tra maggioranza e opposizione. Dopo le elezioni politiche del 2013, dichiarate libere e democratiche, e la vittoria dell’opposizione riconosciuta dal governo uscente, Tirana si aspetta ora che la Commissione riconosca i passi avanti fatti dal paese, raccomandando al Consiglio europeo di attribuire alla repubblica lo status di paese candidato, e magari anche pensare ad una data per l’apertura dei negoziati d’adesione.
Infine, per quanto riguarda la Turchia, il fallout dei fatti di Gezi non si è ancora depositato e continua a invelenire le relazioni tra Bruxelles e Ankara, assieme alla recente sentenza Demirkan della Corte di giustizia dell’UE che ha gettato una doccia fredda sulle speranze turche di accelerare la liberalizzazione dei visti. In ogni caso, mentre numerosi capitoli negoziali sono bloccati da Cipro, dalla Francia o dalla Commissione stessa, la Commissione dovrebbe proporre l’apertura del capitolo 22 sulla politica regionale, come già proposto un anno fa dalla presidenza irlandese del Consiglio (poi rimandato in seguito ai fatti di Gezi), per mantenere l’impeto nelle relazioni bilaterali e rilanciare, nel momento in cui la dinamica più interessante nella repubblica anatolica sembra essere quella di una possibile pacificazione tra turchi e curdi attraverso la progressiva decentralizzazione e concessione di diritti culturali alla minoranza.
Vedremo se le raccomandazioni della Commissione saranno quelle attese, e se il Consiglio europeo di dicembre porterà i suoi “regali di Natale” ai paesi dell’allargamento. Intanto, il 1° gennaio 2014 sarà il turno della Grecia come presidente del Consiglio dell’UE per sei mesi, prima di lasciare spazio all’Italia. A 10 anni dalla dichiarazione di Salonicco del 2003 che spianò la strada all’avvio del processo di allargamento per i paesi dei Balcani occidentali, Atene ha deciso di tralasciare l’allargamento dalle priorità della sua agenda di presidenza. Non certo una buona notizia per gli stati dei Balcani, che hanno solitamente potuto contare sull’appoggio greco (tranne che la Macedonia), né per la Turchia le cui relazioni con la Grecia non sono mai state particolarmente calde.