di Emanuela Pergolizzi
Vola alto il jet privato di Erdogan, in partenza per un round diplomatico in Marocco, Algeria e Tunisia. Continuano invece le proteste, iniziate nel parco Gezi di Istanbul e ormai diffuse in più di ottanta città. Al sesto giorno dall’inizio delle manifestazioni, inizialmente dirette contro la costruzione di un maxi-centro commerciale in un angolo verde del quartiere di Beyoglu, l’ira delle proteste, questa mattina, si scatena contro i media colpevoli di non dare informazioni sulla protesta. E sui suoi morti: oggi si sa che sono almeno due, entrambi a Istanbul. Uno dei due è un giovane deceduto a seguito di un colpo di manganello alla testa.
Centinaia si sono raccolti davanti alla sede del Dogus Grubu, gigantesca holding proprietaria di più di una ventina di canali televisivi e radio, accusata di aver apertamente ignorato le proteste. “Che si vergognino, che si vergognino!” dichiara da un video-appello il regista turco Fatih Akin, autore del celebre film La Sposa Turca. Tra i post che circolano di più su Facebook in questi giorni, c’è un’immagine della CNN inglese che riporta le proteste, vicino alla rispettiva CNN turca, dove è in onda, nello stesso istante, un documentario sulla natura.
Le critiche ai media sono il riflesso delle profonde radici delle proteste, iniziate contro la sregolata speculazione edilizia in atto da anni a Istanbul e sfociate in un forte grido per la democrazia, la libertà di stampa, la laicità, i diritti civili. Curdi e nazionalisti, radicali e moderati hanno dimenticato i reciproci contrasti, uniti negli slogan contro il governo. “Ogni persona, ha il diritto di sentirsi libera nel proprio paese, in ogni accezione” ha dichiarato oggi il Presidente della Repubblica, Abdulah Gul, “democrazia non vuol dire solo libere elezioni”. Le parole di Gul centrano in pieno l’insofferenza di un paese che vanta il triste record di giornalisti in carcere e in cui la stampa è soggetta a forti pressioni.
Puntuale risposta al silenzio dei media, i social network sono stati il canale preferenziale dei manifestanti per la trasmissione di foto, video e comunicazioni. Mentre la popolarità del governo si sbriciolava a colpi di tweet, la CNN ha riportato la notizia secondo cui la compagnia di telefonia mobile Turkcell avrebbe dichiarato di aver ricevuto pressioni dal governo per interrompere le comunicazioni nei luoghi degli scontri. Nonostante i blocchi telefonici e le dichiarazioni del primo ministro che non ha mancato di definire i social media “una piaga della società”, ricerche dell’Università di New York riportano che venerdì 31 maggio, in sei ore (tra le 16 e le 24) sono stati inviati ben 2 milioni di tweet.
Mentre dal sindaco di Istanbul, Kadir Topbas, arrivano le prime amare ammissioni sugli errori delle forze di polizia, è proprio sui social network che iniziano a circolare le prime notizie sul possibile utilizzo dell’Agente Arancio, defoliante inaugurato dall’esercito statunitense durante la guerra del Vietnam. L’utilizzo di queste sostanze rimane ancora da provare, come è da accertare il crescente numero di feriti e di vittime delle proteste, i cui numeri crescono negli affollatissimi ospedali del paese. “E’ stato un test per la democrazia turca”, ha detto il Presidente Gul questa mattina. Una prova che però non fa onore alla Turchia, la cui immagine e consenso internazionale sono sempre state in crescita dal 2002, anno della prima vittoria elettorale dell’AKP, partito della Giustizia e dello Sviluppo.
“Non ve lo dimenticate, costruire l’immagine di un paese non è cosa facile. Abbiamo faticato molto e perdere questi sforzi danneggia tutti quanti”, prosegue il presidente Gul. Questa mattina, infatti, la borsa della “piccola Cina d’Oriente” – così denominata per la crescita esponenziale del PIL, con picchi superiori all’8% nel 2010 e 2011 – ha registrato un brusco calo.
In contrasto con il silenzio dei media turchi, inoltre, la stampa internazionale ha ampiamente condannato la violenza utilizzata nelle proteste, in un pericoloso “boomerang” d’immagine diretto contro Erdogan. Mentre sabato la polizia aveva annunciato il ritiro da piazza Taksim, luogo dell’inizio delle violenze, una manifestazione colorata e viva aveva preso possesso delle strade. Nella serata di ieri, tuttavia, proteste ancora più violente sono scoppiate nel vicino quartiere di Besiktas, con l’analogo rituale di gas, idranti e pallottole di gomma. Rimangono imprevedibili i prossimi eventi, come il futuro politico di Erdogan.
Nella capacità del partito “AK”, dal turco “puro”, di tenere conto delle richieste di libertà e democrazia dei manifestanti, dipende il destino elettorale del Primo Ministro, che potrebbe essersi giocato la corsa presidenziale, prevista per il 2014. Non è più possibile contenere i media quando il contrasto per una gestione del potere da molti considerata autoritaria scoppia in un moto spontaneo, dalla diffusione senza precedenti.
Quello che è certo, è che non si tratta di “rivoluzione” o di un’ennesima primavera. Erdogan non è un dittatore, ma un leader democraticamente eletto. Se metà della popolazione è scesa in piazza, ne esiste un’altra metà silenziosa, che l’ha sempre sostenuto.
Come ha dichiarato lo stesso primo ministro, saranno le urne a decidere il suo futuro, e non la strada. Mentre il jet di Erdogan si alza in volo, occorre fare un passo indietro e guardare nel complesso gli eventi. Non resta che rimanere ad osservare gli sviluppi, di cui ora i media – turchi ed internazionali – rimangono i veri indiscussi protagonisti.
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*Autrice di La politica estera AKP. Una sintesi «neo» o «post» ottomana?