Il 31 maggio alcune centinaia di cittadini provenienti dalle principali città della Bosnia-Erzegovina si sono ritrovate a Prijedor per ricordare le vittime della pulizia etnica perpetrata dai serbo-bosniaci ai danni di bosgnacchi e croati durante la guerra del 1992-95. Scandendo lo slogan Jer me se tiče, una sorta di “I care” in versione bosniaca, i manifestanti hanno marciato per le strade di Prijedor con dei fazzoletti bianchi legati al braccio.
La scelta della data non è casuale, così come non lo è quella di indossare delle fasce bianche. Ricorda che, il 31 maggio di ventuno anni prima, i serbo-bosniaci ordinarono ai loro concittadini di diversa etnia di indossare nastri bianchi in segno di riconoscimento. Questo avvenimento segnò l’inizio di una campagna di pulizia etnica che, si stima, abbia fatto più di tremila vittime civili, ma la cui esistenza continua ad essere negata dalle autorità politiche locali.
Prijedor, la città maledetta
La pulizia etnica fu particolarmente brutale in questa parte della Bosnia, tanto che Prijedor divenne famosa per i quattro campi di concentramento sorti nei suoi dintorni. Il 23 aprile 1993 i serbo-bosniaci formarono il “Comitato di crisi del distretto serbo di Prijedor”, una lobby politica ed economica che aveva lo scopo di stabilire un controllo totale sulla municipalità. Secondo il dettagliato report stilato da Human Right Watch, dal momento in cui i serbo-bosniaci assunsero il controllo della municipalità alla popolazione non appartenente all’etnia serba fu concesso di lasciare la città a condizione di rinunciare ai diritti di proprietà e concordare di non tornare mai più. Le case e i terreni di bosgnacchi e croati vennero espropriate, i loro proprietari costretti a cercare rifugio altrove, mentre chiese e moschee venivano date alle fiamme.
Attualmente, a Prijedor non è permesso erigere un monumento in ricordo delle vittime civili del massacro. Nonostante le pressanti richieste delle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti al campo di concentramento di Omarska, un villaggio a pochi chilometri da Prijedor, le autorità locali e la compagnia Arcelor Mittal, attuale proprietaria dell’ex complesso minerario che ospitava il campo di concentramento, impediscono di posare anche solo una lapide per commemorare chi venne massacrato, violentato, torturato e ucciso. Eppure, affermano i manifestanti di Jer me se tice, tra cui si annoverano anche cittadini serbo-bosniaci, riconoscere che a Prijedor ci sia stato un genocidio sarebbe il primo passo verso la riconciliazione.
Rielaborare il conflitto o negare il passato?
Avviare un percorso condiviso di rielaborazione del conflitto appare quasi un’utopia, almeno finché non cambierà la classe politica al potere. L’attuale sindaco di Prijedor, Marko Pavić, è infatti uno dei membri del famigerato “Comitato di Crisi”, che nel 1993 aveva l’incarico di drenare e riciclare denaro durante la presa della città, in quanto all’epoca direttore delle poste. Nel 2009 Pavić, intervenendo a proposito delle richieste avanzate dall’associazione delle vittime del campo di concentramento di Omarska, dichiarò pubblicamente che “i bosgnacchi mentono e accusano senza prove” e che “chi infanga il nome di Prijedor non dovrebbe cercare lavoro da queste parti”.
Le sue affermazioni non trovano riscontro nel rapporto di Amnesty International, che nel 1993 pubblicò le testimonianze delle torture e violenze perpetrate nei campi di concentramento di Omarska, Trnopolje, Manjaca e all’interno dell’ex fabbrica Keraterm a Prijedor. Anche la Commissione di indagine sui crimini di guerra delle Nazioni Unite in un rapporto del 1994 decretò che “la sistematica distruzione della comunità bosgnacca nell’area di Prijedor merita il nome di genocidio”.
Una società civile che non rimane in silenzio
Come se non bastasse, negli ultimi anni le autorità locali hanno vietato in più occasioni di manifestare in ricordo delle vittime della pulizia etnica. A dicembre del 2012, in occasione della Giornata dei Diritti Umani, le associazioni di Prijedor organizzarono la commemorazione del ventesimo anniversario del massacro di Prijedor. In quell’occasione la polizia intervenne per impedire la manifestazione, senza alcuna motivazione apparente. La notizia finì sui giornali quando sette attivisti decisero di protestare nonostante il divieto, camminando lungo la via principale della città con la bocca chiusa da un pezzo di nastro adesivo in segno di protesta. Il cartello che reggevano diceva: “Laddove i diritti umani sono minacciati, la disobbedienza civile diventa un dovere”.
Manifestazioni come quella del 31 maggio a Prijedor, così come le proteste di massa contro la distruzione del Picin Park a Banja Luka, mostrano che, nonostante la sordità delle autorità politiche, la società civile bosniaca ha scelto di non rimanere in silenzio.
Photo credit: radiosarajevo.ba