ALGERIA: Ahmed Benbella, morte di una icona dimenticata

di Karim Metref

RUBRICA: Dispacci mediterranei

L’icona di una generazione

C’è tutta una generazione di over cinquanta italiani, di sinistra, per la quale la sola parola Algeria fa brillare gli occhi. Quanti ricordi, quanti ricordi! La vittoria del bene sul male. Il trionfo di una rivoluzione popolare sull’imperialismo. Il film di Pontecorvo, le esperienze di autogestione dell’industria e dell’agricoltura, il paese che per più di quindici anni diventa mèta di tutti i rivoluzionari del mondo: Che Guevara, Fidel Castro, Ho Chi Minh, Malcolm X, le Black Panters che si ribellano in un carcere di alta sicurezza, sequestrano le guardie e chiedono un aereo per andare… ad Algeri, Nelson Mandela, Il festival Panafricano dove ci sono tutti i movimenti di liberazione dell’Africa, tutte le, allora giovani, star della rinascita musicale africana, C’è il più grande tra tutti: the president, Fela Kuti, c’è un giovanissimo Manu Di Bango con il suo già potente sax, e c’è anche Miriam Makeba che canta sulla piazza principale di Algeri, Mamma Africa e Patipata… Gli occhi si inumidiscono, fissano immagini che sembrano riemergere dalla nebbia del tempo… che bello, che bello! E poi? E poi niente! L’Algeria è scomparsa. Il paese ha avuto altre gatte da pelare e il mondo pure.

Una domanda imbarazzante

Dopo queste rievocazioni, una domanda sorge quasi sempre, spontanea:

– Che fine ha fatto quello lì… l’ex presidente, Ben Bella?

– Vive in esilio da molti anni ormai. – rispondo io, cercando già di guardare altrove.

– Ma è ancora popolare in Algeria? Cosa ne pensi?

E lì… inevitabilmente mi trovo in difficoltà…

– Mah… sa, ormai sono passati molti anni. I giovani non sanno nemmeno chi è. Invece quelli della mia generazione se lo ricordano. Per noi era un nome. Un nome per chiamare qualcosa di non molto definito… Sono successe molte cose…Hum hum.

Quando avevo diciotto anni se qualcuno mi mostrava una icona e diceva: Questo è Santo questo o santo quello, e che è capace di questi o quei miracoli… avrei detto: Che me ne frega, a me. Io non credo nei santi e ancora meno nei miracoli. Ma il tempo, i viaggi e l’esperienza mi hanno insegnato a rispettare le icone. Soprattutto quelle degli altri. Ho capito che per molti credenti le icone sono ancora più importanti della lettera stessa della fede. E che rimetterle in causa li offende profondamente… E chi sono io per andare a offendere le persone nelle loro convinzioni? O per pretendere che solo le mie siano degne di essere dette e ascoltate.? Allora ho imparato anche a spostare la discussione dal senso religioso dell’icona al valore artistico e materiale dell’oggetto.

Che bella! È pittura ad olio? È bronzo? Di che epoca è l’opera? Interessante. Ah… è un pezzo unico? Bello! Proprio bello.

E ci si ritrova a parlare di arte e di storia e ci si allontana così dal terreno scivoloso della fede, dove spesso ci vuole tempo, calma, riflessione, ascolto e approfondimento, tutte cose impossibili in una chiacchierata occasionale di poche battute.

E una altra cosa che mi ha insegnato il tempo è che persone come Ben Bella -almeno in Italia- hanno da tempo lasciato la casa dell’analisi storico politica razionale per abitare quella dell’iconografia e della simbologia mistica. Simbolo di un sogno di giustizia, dei Davide che sconfiggono i Golia, del trionfo del bene sul male, di una emancipazione dei popoli sottomessi e della fine dell’oppressione coloniale e neocoloniale: cioè di un sogno impossibile.

Chi era Ben Bella e cosa ne pensa l’algerino medio?

É sempre difficile rispondere a una domanda come questa. Cosa può ben pensare un popolo così grande, così diverso, così diviso su molte cose, su una sola persona? Fosse anche un personaggio storico. La cosa di cui sono sicuro, per aver fatto l’insegnante per dieci anni nel mio paese, è che le nuove generazioni se hanno sentito il nome, perché ufficialmente primo Presidente della Repubblica Algerina, non ne pensano assolutamente nulla. Né bene né male.

Su quelli un po’ più grandi invece è più complicato. È complicato come lo sono tutte le faccende legate alla guerra di liberazione nazionale algerina. Perché ancora cinquant’anni dopo non si riesce a raccontare con un minimo di distanza e di distacco. Sembra ancora tutto lì: dolori, sofferenze, lutti, alleanze, coraggio, eroismo e lealtà, paure, divisioni, vigliaccherie e tradimenti: tutto ancora vivo, anche se le donne e gli uomini che l’hanno fatta sono ormai rimasti molto pochi, almeno quelli veri.

Se, per l’Italiano medio over cinquanta di sinistra, la guerra di liberazione nazionale algerina vuol dire battaglia di Algeri e Ben Bella, per gli Algerini questi due elementi sono tra i più marginali di quella storia. Se chiedi ad un algerino della mia generazione o di quelle precedenti di dire tre nomi rappresentativi della rivoluzione, sono pronto a scommettere che in 99% dei casi Ben Bella non verrà citato. Ma sono anche sicuro che la classifica sarà molto diversa tra una persona e un’altra.

Questo è dovuto al fatto che la lotta per l’indipendenza algerina non ha mai avuto una icona unica, mai una forma gerarchica molto forte, soprattutto fin che era veramente rivoluzionaria, prima della presa di potere da parte dei militari.

6-9-22 leader rivoluzionari

Dopo anni di lotta politica e di partecipazioni elettorali alle quali l’amministrazione coloniale francese ha risposto con disprezzo, frodi, corruzione, menzogne e soprattutto violenza, al ritorno dal fronte della Seconda guerra mondiale molti soldati algerini hanno trovato le loro famiglie decimate dai massacri del 8 maggio 1945 conosciuti come i fatti di Setif, Guelma e Kherrata. Decine di miglia di civili massacrati in una settimana per aver osato manifestare e chiedere più diritti, più pane, più dignità. Già da quell’anno, i primi ribelli decisero di prendere la strada della macchia. Dopo un  periodo di frammentazione i movimenti anti-coloniali trovano una linea comune, il Fronte di Liberazione Nazionale, per la lotta armata. I firmatari sono sei, alcuni già in montagna da anni: Krim Belkacem, Mostefa Ben Boulaïd, Larbi Ben M’Hidi, Mohamed Boudiaf, Rabah Bitat e Didouche Mourad. Di Ben Bella non c’è traccia.

Dai sei, il nuovo fronte passa rapidamente a ventidue leader storici ma anche in questa fase di confluenza di sigle e di leader non c’è traccia di Ben Bella. Eppure il giovane militante fa parte da tempo del movimento indipendentista. Ma non ha mai avuto ruoli di comando. Alla proclamazione della guerra d’indipendenza era latitante all’estero e rimase tra gli assenti. Perse così il primo appuntamento con il treno della storia. Come diventerà, dunque, l’icona di una generazione di europei?

Chi è Ben Bella?

Nato nel 1916 nella cittadina di Maghnia (Provincia di Orano), Ahmed Ben Bella ha avuto una vita lunga e piena. Figlio di genitori originari dall’Alto Atlante in Marocco emigrati in Algeria, come fecero molti contadini poveri, per lavorare come braccianti nelle tenute dei coloni europei nelle ricche terre dell’ovest dell’Algeria. Il padre, però, dopo un po’, migliorò sensibilmente la situazione economica della famiglia diventando commerciante. Ciò permise al giovane Ahmed di arrivare agli studi superiori, cosa rara all’epoca.

Ha combattuto nella seconda guerra mondiale per l’esercito francese, dove fu decorato per fatti d’armi e ferite riportate durante le varie battaglie alle quali prese parte tra cui quella di Monte Cassino. Al ritorno trovò l’Algeria sotto lo choc dei massacri del maggio 1945 e come molti si arruolò nel Partito del Popolo Algerino. Presto entrò a far parte dell’ala rivoluzionaria e nel 1949 partecipa alla rapina della posta di Orano. Pochi mesi dopo è arrestato. Evade di carcere nel 1952 e fugge in Egitto per raggiungere altri latitanti che formeranno poi la delegazione del Fronte di Liberazione all’estero.

Nel 1956 doveva recarsi dal Marocco in Tunisia su un aereo di linea marocchino, insieme a cinque altri dirigenti del Fronte all’estero, il pilota francese dell’aereo ottempera all’ordine dell’esercito francese e atterra in terra algerina permettendo l’arresto dei leader rivoluzionari. Rimane in carcere fino al risultato del referendum per l’autodeterminazione nel 1961, perdendo per la seconda volta il treno della storia.

Inizio e fine di una brevissima leggenda

Nel 1962, riesce per la prima e l’ultima volta della sua lunga vita a prendere quel famoso treno della storia che è sempre partito senza di lui. Lo prende entrando trionfale insieme all’Esercito delle Frontiere, con quelli che la guerra non l’hanno mai fatta. I partigiani dell’interno non riescono a opporsi. L’Esercito delle Frontiere nato nei campi profughi di Oujda in Marocco e Saghiet Sidi Yusef in Tunisia è formato da giovani ben armati, ben vestiti, attrezzati con artiglieria e veicoli blindati  forniti da consiglieri militari accorsi da tutto il blocco socialista di allora. I combattenti dell’interno del paese erano sfiniti da uno dei conflitti più violenti della storia: un milione di morti su otto milioni di abitanti. Il nuovo esercito è forte anche del consenso delle nazioni arabe e del blocco socialista. Ma non dispiace nemmeno troppo all’occidente.

L’unico tra i leader storici pronto a mettere la faccia per dare un minimo di legittimità a questo golpe è il meno storico dei leader storici: Ahmed Ben Bella. Gli altri, quelli veri, si ritrovano prima marginalizzati nel tentativo di assemblea costituente. Poi arrestati, mandati in esilio o addirittura assassinati.

In quei momenti così drammatici, sbarcavano ad Algeri i fricchettoni di mezzo mondo per festeggiare la vittoria della rivoluzione dei poveri e trovarono ad accogliergli la faccia sorridente e paffutella di Ahmed Ben Bella. Lui anche non si privò dall’esibirsi in pubblico. Amava tanto i bagni di folla, i lunghi discorsi, pieni di slogan e di emozione e vuoti di contenuti, e la compagnia delle star del terzomondismo.

L’idillio del neo-presidente con i colonnelli non durò a lungo e tre anni dopo la sua nomina fu rovesciato dal più potente e deciso di questi, Houari Boumedienne, finora capo dello Stato Maggiore e ministro della difesa. Il colonnello, per quattordici anni, sostituì su giornali e sugli schermi delle tv del mondo il sorriso da bambinone mai cresciuto di Ben Bella con il suo ghigno e la sua grinta da lupo affamato.

Da lì, pian pianino, il vecchio rivoluzionario pantofolaio ritornò nell’anonimato dal quale, forse -non avendo lasciato né pensiero degno di essere condiviso, né particolari azioni degne di essere ricordate – forse non avrebbe mai dovuto uscire.

E’ morto nell’anonimato e nel disinteresse l’11 aprile scorso.

Riposa in pace, vecchio signore simpatico e sorridente. Comunque sia, insieme alla tua generazione, nonostante tutto, avete preso le vostre responsabilità in mano e avevate deciso di cambiare il destino di tutto un popolo. Che la terra ti sia lieve.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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6 commenti

  1. Per la precisione descrivere i fatti di Setif, Guelma e Kherrata come ‘manifestazioni per chiedere più diritti’ é storicamente inesatto. Le manifestazioni degenerarono nella caccia ai francesi, uomini, donne e bambini, che furono assassinati nei modi più barbari. La reazione, come sempre accade, fu sproporzionata, efferata, crudele. In essa si distinsero coloni che avevano trovato le case incendiate, le mogli violentate e uccise e bambini fatti a pezzi.

    • Vede, Signor Bonaiti. La storia non è una scienza esatta e ce ne sono versioni diverse. Non so su quali fonti si basa per sostenere la sua teoria. Ma non la contesto nel merito. Le mie di fonti diccono che c’è stato uno scontro a mani nude tra manifestatnti e contromanifestanti. Poi una sparatoria dove sono caduti alcuni manifestanti. Poi una sommossa violenta dove sono stati saccheggiati negozi e aggrediti cittadini europei. Ma le mie fonti sono per lo più algerine e sono impregnate di nazionalismo (e vittimismo) algerino. E come ben saprà ognuno scrive la storia a sua comodità. Le sue saranno probabilmente impregnate di vittimismo Pied Noir. La verità sta da qualche parte tra le due versioni.
      Rimane un principio di fondo. Se tu puoi mangiare e io no… quella è l’origine di ogni violenza.

  2. Caro Karim sono rimasto colpito dallo spirito di equilibrio della tua risposta. Sono d’accordo sulla tua osservazione, “la storia non é una scienza esatta”, aggiungerei che ‘Il sangue della storia si secca presto”.
    Purtroppo viviamo in un paese provinciale, fieramente impegnato in diatribe tra nani politici e dei paesi vicini sappiamo pochissimo.

    • Sapere poco di altri paesi è normale. Non possiamo sapere tutto. L’unica cosa che mi fa sempre arrabbiare è la superficialità con la quale i media trattano tutto quello che è un po’ fuori dal loro mondo.

  3. peccato che dopo la guerra di Algeria, chi andò al potere si comportò non tanto bene con i berberi…e con altre minoranze (negazione della lingua etc) gli unici veri autoctoni della regione e altre vicende, come la mancata distribuzione di terre ai contadini. Insomma, mi pare che l’Algeria sia saltata dalla padella alla brace. Vedi le varie primavere nere etc. La realtà è che il potere vuole sopraffare il più debole e basta, colonialisti o non colonialisti.

    • Il potere vuole sopraffare sempre. Questo è vero. MA non c’è paragone tra il prima e il dopo colonialismo. Prima era tutto un popolo ridotto in schiavitù. Fame, malattie, ignoranza… Oggi, le cose potrebbero andare meglio, ci vorrebbe un po’ più di libertà, un attimo di apertura in più… Mancano tante cose ma non è come sotto i coloni. Non sappiamo come sarebbe andata se invece di chiedere l’indipendenza la rivoluzione fosse solo per l’uguaglianza. Non lo sappiamo e non lo potremo mai sapere. LA storia è come è e con i “SE” non si risolve nulla.
      Ora la questione berbera è tutta un’altra storia. Io sono attivista per i diritti culturali dei berberi dall’età di 15 anni. Ne so qualcosa su questo. MA questa è una altra questione. Una storia che bisogna raccontare in un altro luogo un altro momento. Non in un pezzo sulla morte di Benbella. Sono altri quelli che hanno giocato un ruolo chiave nella repressione della cultura berbera e purtroppo …. sono quasi tutti berberi.
      Grazie del commento.

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