Oggi 25 aprile. Dalla Val d’Ossola alla Dalmazia, e c’era l’uomo di Odessa

di Matteo Zola

Oggi è il 25 aprile, in Italia è la data in cui si festeggia la liberazione dal nazifascismo e la fine della Seconda guerra mondiale. Ricordo in un romanzo di Fenoglio, credo fosse Una questione privata, quando a un partigiano rosso l’autore fece dire: “adesso finiamo coi tedeschi, poi tocca a voi“. La frase era rivolta a un altro partigiano, azzurro mi pare, badogliano. O forse bianco, cattolico. Non so più.

Qualche anno fa con un amico facemmo un’escursione in montagna, nelle zone della Val d’Ossola dove sorse una delle prime repubbliche partigiane, nel 1944, liberando di fatto un vasto territorio alpino per circa quaranta giorni. Mi disse che suo nonno aveva combattuto su quei monti ma, a differenza dei molti che trovavamo sulle cime a guardare le valli, egli non trovò la morte in guerra così, dopo, fu costretto a lasciare quella terra di cui era originario per evitare ritorsioni dei rossi: “era un badogliano” – mi disse l’amico.

Ante Zemljiar, nacque a Pago in Dalmazia, combatté nella resistenza jugoslava. Durante la Seconda guerra mondiale fu più volte fatto prigioniero ed incarcerato sia dagli ustascia che dai carabinieri, ma sempre riuscendo a salvarsi. Finita la guerra, non si salvò dal carcere titino. Dopo un anno e mezzo di interrogatori, viene, per motivi ideologici, internato per quattro anni e mezzo nel famigerato campo dell’Isola Nuda (Goli Otok). “Per motivi ideologici“, l’assurdità del Novecento è tutta in questa accusa. Era poeta, Ante Zemljiar, e fece l’errore durante la resistenza di scrivere e sottoporre i suoi testi al Comitato centrale croato che lo bollò come “surrealista”, quindi “piccolo borghese”. Dopo la guerra l’accusa si tramutò in “dissidente“. Così nel 1949 arrivò il campo di prigionia, il più duro che ebbe a provare, disse Ante, e sì che ne aveva provati tanti. E’ morto nel 2004.

Ventitré giorni durò la libertà di Alba. Dalle colline scesero le brigate azzurre di Mauri, al secolo Enrico Martini, già maggiore degli alpini nel regio esercito, e praticamente da sole liberarono la città, benché coadiuvate dalle brigate di Giustizia e Libertà (i verdi, legati al partito d’azione e alla lezione di Rosselli) e Garibaldi (comunisti). Da monferrino di nascita e cultura frequento assiduamente le colline di Langa e mi passo i venticinque aprile tra i bricchi e le sepolture, le osterie: a Neive un monumento recita, più o meno: “per difendere grande patria perduta, difesero la piccola patria fra i colli”. Vado a braccio, ma il senso è quello. Da monferrino, dicevo, cerco tra i colli l’antiretorica di chi resistenza ne fece anche tanta, col fucile, con la penna, con la fuga: Pavese, Fenoglio, Revelli, a volte vedo Ginzburg seduto su un muretto, come nella celebre foto.

Nato a Odessa, in Ucraina, il 4 aprile 1909, morto nel carcere di Regina Coeli a Roma il 5 febbraio 1944, letterato. Leone Ginzburg, di famiglia ebrea di origine russa ma naturalizzato italiano, ha studiato a Torino. Frequenta tutti quelli che stanno nella mia libreria: Pavese, Bobbio, Carlo Levi, Monti, a Parigi conosce Carlo Rosselli (socialdemocratico) e tornato a Torino, dove aveva ottenuto la libera docenza, rifiuta il giuramento al regime fascista. Viene licenziato. Era il 1934. Per fortuna a Torino c’era Giulio Einaudi e la sua casa editrice dove Leone lavorò fino al 1938, anno delle leggi razziali. Nel ’43 torna all’attività clandestina ma lo arrestano di nuovo. Finisce a Regina Coeli, braccio “tedesco”, braccio di tortura, e ci muore.

Oggi è il 25 aprile, così ho cercato di parlar di casa nostra passando da est, e di dire che non solo rossa è stata la resistenza, ma che tutta ha egualmente resistito. Anche a sé stessa.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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6 commenti

  1. Angela di gregorio

    Che bel pezzo ! Proprio- lo dico da persona del sud dove la liberazione ha assunto ben altre forme

  2. da notare il pingback su Passaggio a Sud Est 🙂
    Bravo Matteo!
    http://pasudest.blogspot.com/2012/04/ora-e-sempre-resistenza.html

  3. bello. forse, in ogni circostanza, ci sono sempre più caporali che uomini.

    • Bonaiti Emilio

      Completamente d’accordo. Bell’articolo!
      Sia consentito un breve ricordo personale. Il 25 Aprile bambino quindicenne, allora si cresceva più lentamente, assistei a Lecco all’improvviso ‘fiorire’ dalle incombenti montagne del felice ‘suono’ delle armi partigiane e li vidi lentamente scendere sulla città. Un ricordo indimenticabile che ancora mi commuove a 82 anni e con un mare di deluse speranze alle spalle.
      Chi vuole sapere che cosa é stata la Resistenza deve assolutamente leggere “Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio, romanzo incompiuto. L’Uomo (il maiuscolo é d’obbligo) dopo esser scampato a tedeschi e fascisti, sarà abbattuto ancora giovane, dal male del secolo.

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