Salvini e Putin

Russofobia e censura di guerra in Italia: una trappola mediatica

Negli ultimi giorni in Italia si è tornati a parlare di russofobia e censura di guerra. Due concetti che suonano paradossali, in un paese in cui la guerra non c’è da 80 anni e dove la Russia gode da sempre di enorme supporto popolare. Un necessario ritorno alla realtà, oltre le bolle mediatiche.

Mercoledì 12 novembre si è tenuto a Torino il convegno “Russofobia. Russofilia. Verità”, ospitato dal Circolo Arci “La Poderosa”. A gestire il dibattito sono stati il giornalista Vincenzo Lorusso e lo storico Angelo D’Orsi, ai quali si sono aggiunti gli interventi dell’attivista ex 5 Stelle Alessandro Di Battista e dell’attore italo-bulgaro Moni Ovadia. Secondo il programma iniziale, l’evento si sarebbe dovuto svolgere presso il circolo culturale Polo del ‘900. Tuttavia, dopo le polemiche sollevate da membri torinesi dell’organizzazione Europa Radicale, dall’eurodeputata del PD Pina Picierno e dal leader di Azione Carlo Calenda, il circolo ha fatto un passo indietro, annullando il convegno. Come prevedibile, questi sviluppi hanno rafforzato le tesi degli organizzatori, che si sono dichiarati vittime di censura legata proprio al tema centrale dell’incontro: la “russofobia” in Italia.

Russofilia e russofobia nella storia recente italiana

Per parlare di russofobia e russofilia in Italia è sufficiente guardare agli ultimi dodici anni di storia nazionale, tenendo però a mente un dato storico importante: durante tutta la Guerra Fredda (1947–1991), l’Italia ha ospitato il più grande partito comunista del blocco occidentale. Quel PCI che, da Togliatti a Occhetto, passando per Berlinguer, ha avuto in Mosca un riferimento politico obbligato, pur riconoscendo progressivamente tutti i limiti e le contraddizioni del comunismo sovietico. Una dinamica che, a specchio, coinvolse anche i milioni di elettori del partito, vale a dire una parte consistente dell’opinione pubblica italiana.

Tornando a un passato più recente, è interessante notare come lo scoppio della crisi russo-ucraina nel biennio 2013–2014 sia coinciso in Italia con l’ascesa di una nuova classe politica anti-sistema, definita dal mainstream come “populista” e “sovranista”. Nelle elezioni parlamentari del febbraio 2013, il Movimento 5 Stelle ottenne uno storico 25,5% dei voti, e a dicembre dello stesso anno Matteo Salvini stravinse le primarie della Lega Nord. Entrambi i partiti, pur divergenti su temi interni, convergevano sulla politica estera: anti-atlantismo, euroscetticismo e vicinanza alla Russia.

Negli anni successivi, mentre in Ucraina orientale si combatteva una guerra che ricorda i conflitti mondiali, in Italia Lega e 5 Stelle intercettavano il potenziale della “russofilia”: un universo che va dagli amanti della cultura russa ai nostalgici del comunismo sovietico, dalla critica alla globalizzazione americana al risentimento verso l’establishment euro-atlantico. In questo contesto, il biennio 2018–2019 è emblematico. Alle politiche del 2018, i 5 Stelle raggiungono il loro massimo storico (32,6%) e formano un’alleanza con Salvini che genera il governo “Conte I”. Nel “Contratto per il governo del cambiamento” si propone di rivedere le sanzioni contro Mosca, imposte dopo l’annessione della Crimea. Intanto, Salvini spopola sui social indossando magliette di Putin e mostrando foto del leader russo a mo’ di santino nella sua libreria. Nel 2019, la Lega raggiunge il suo picco alle europee (34,3%) e poco dopo scoppia l’inchiesta Moscopoli, secondo cui la Lega avrebbe ricevuto fondi da Russia Unita.

Nello stesso frangente, mentre leghisti e grillini elevano il sentimento filo-russo ai livelli più alti dello Stato, il Cremlino continua a guadagnare consenso anche tra le realtà anti-sistema ed extra-parlamentari.  Molti centri sociali e gruppi della sinistra antagonista vedono nel secessionismo del Donbass un argine all’“idra capitalista statunitense”, trovandosi — dall’altro lato del ferro di cavallo — sulla stessa barricata dell’estrema destra italiana, di Forza Nuova e CasaPound. Per questi ultimi, Putin è il baluardo di una cultura europea minacciata dal neoliberismo occidentale. Siamo al picco del sostegno politico alla Russia, trasversale a tutto il panorama partitico italiano.

Il 24 febbraio 2022 inizia l’invasione russa su larga scala; già a inizio marzo le relazioni tra Roma e Mosca sono ridotte al minimo storico. Intanto, gli italiani scendono in piazza a sostegno dell’Ucraina, e la bandiera gialloblù diventa simbolo di resistenza.

Russofobia? No. È la naturale reazione di un popolo abituato alla pace di fronte al ritorno della guerra in Europa. È il riconoscimento di un aggressore e di un aggredito, la constatazione di cosa sia realmente il regime di Putin. Un’onda emotiva generata dalle migliaia di morti civili e dai milioni di persone costrette a fuggire ma destinata, in quanto tale, a esaurirsi nel giro di poco tempo.

Oggi, a quasi quattro anni da quel febbraio, viviamo infatti una realtà ben diversa. Secondo recenti sondaggi, l’Italia è l’ultimo dei grandi Paesi dell’UE (Spagna, Francia, Germania, Polonia) a considerare la Russia una minaccia. Meno di un italiano su due è favorevole all’invio di armi all’Ucraina, mentre molti sono disposti a cedere territori orientali a Mosca. Chi denuncia russofobia e censura è ospitato nei principali talk show e domina i social network, con video da centinaia di migliaia di visualizzazioni e profili seguiti da milioni di utenti.

Una questione di percezioni e un necessario ritorno alla realtà

Com’è possibile dunque che in uno dei paesi meno russofobi d’Europa, in cui ancora – nonostante la guerra – si conservano rapporti politici con il Cremlino, oltre che storici e culturali con la Russia, si faccia tutto questo rumore in nome della “russofobia” e della “censura di guerra”? La risposta, forse, sta proprio negli eventi di questa settimana. In ordine: sabato, Carlo Calenda si tatua il tridente ucraino sul polso a “eterno sostegno della causa ucraina”, generando uno tsunami di odio e amore mediatico nei suoi confronti; domenica scoppia la polemica sul convegno di Torino e il Polo del ‘900 si tira indietro; lunedì, l’europarlamentare Pina Picierno definisce l’evento “propaganda putiniana” sul suo profilo Facebook; martedì, mercoledì e giovedì, così come nei giorni precedenti, Angelo D’Orsi, Alessandro Di Battista e molti altri pubblicano raffiche di post sulla faccenda, ottenendo decine di migliaia di interazioni con gli utenti. Una settimana perfetta per comprendere appieno il significato di “bolla mediatica”, un po’ meno per capire la situazione sul campo in Russia, Ucraina e Italia.

La nostra percezione della questione russofobia, quindi, non dipende dal fenomeno in sé, ma piuttosto da come e da quanto se ne parla. Tutto ciò che accade nella realtà viene trasportato sui social network, ma la proporzione tra il fatto reale e la narrazione social non è sempre uguale, e molto dipende da come questa trasposizione avviene. In questo caso, i fatti di Torino, così come quelli del direttore d’orchestra russo a Salerno e tanti altri, fanno molto più rumore — sono molto più visibili — di una miriade di altri avvenimenti che pure ci permetterebbero di comprendere il fenomeno, ma che non trovano alcuno spazio.

Intorno al caos mediatico, da tre anni a questa parte, professori, studiosi e appassionati di storia, lingua e cultura russa hanno continuato a lavorare e a studiare, nonostante i limiti imposti dalla situazione politica. La letteratura russa ha continuato a essere insegnata a scuola e nelle università, e ha continuato a generare, come ha sempre fatto in Italia, grande interesse. La nostra storia e la nostra geografia ci permettono di non cadere nelle terribili dinamiche di odio che invadono Paesi più vicini alla Federazione Russa, come i Baltici o la Polonia.

Eppure, nel dibattito pubblico, scegliamo di polarizzare. Non accettiamo che la vicinanza storica e culturale alla Russia possa convivere con una ferma consapevolezza di quanto assurdo e brutale sia il regime di Putin. L’informazione, che dovrebbe aiutarci a capire cosa succede nel mondo, diventa uno strumento utile a generare like e ricondivisioni, e quindi un aumento smisurato del potere mediatico di pochi, a scapito di molti.

La soluzione? Studiare la storia, la lingua, la letteratura russa e ucraina. Viaggiare, per quanto difficile in questo periodo, in entrambi i paese, o farlo appena finirà la guerra. Lasciar perdere i dibattiti social: scalfire il potere mediatico di quei pochi e riappropriarsi di una conoscenza che appartiene ai molti. 

Fonte immagine: profilo Facebook di Matteo Salvini

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Chi è Livio Maone

Nato a Roma nel 2001. Ha conseguito una triennale in Scienze Politiche a Roma Tre e una magistrale in Eastern European and Eurasian Studies all’Università di Bologna. Ha vissuto e studiato in Romania, Moldova e Lituania.

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