Armenia confine

ARMENIA: Vite al confine. Seminare fiori per arginare le erbacce

Da aprile 2024 in Armenia sono in corso proteste contro il governo, il quale ha avviato trattative con l’Azerbaigian finalizzate alla demarcazione dei confini contesi da anni tra le due nazioni. A partire da questi fatti, si vuole raccontare cosa significa vivere lungo la frontiera.

Il processo bilaterale avviato dalle due nazioni segna un cambio di rotta: per la prima volta, dopo trent’anni di guerra, Baku e Yerevan si impegnano ad affrontare le dispute territoriali con la diplomazia e non con le armi. La diatriba risale a prima delle guerre del Nagorno Karabakh, quando i due Stati avevano sottoscritto l’accordo di Alma-Ata del 1991, con il quale si sanciva la nascita della CSI e si definivano i confini degli stati membri. Nonostante il trattato, sia Armenia che Azerbaigian non hanno mai rispettato l’accordo, contestando di volta in volta le mappe a seconda degli interessi e dei rapporti di forza che si presentavano. Ora, invece, i governi esultano di fronte al riconoscimento reciproco delle carte sovietiche, laddove si trovavano trincee e terre di nessuno ora si piantano cippi e reticolati. Nonostante i proclami istituzionali, all’annuncio della cessione di alcuni territori all’Azerbaigian gran parte del Paese è sceso in piazza a protestare. In particolare, si tratta di quattro villaggi nella regione di Tavush conquistati dall’Armenia nella guerra del ‘92-94 e considerati oggi particolarmente strategici per la presenza di importanti gasdotti, oltre che per la vicinanza all’autostrada che collega il Tavush con la Georgia. Le motivazioni del malcontento sono anche relative alla sicurezza degli abitanti, infatti, con l’avvicinamento del confine, gli agricoltori della zona temono di non poter più coltivare le proprie terre essendo maggiormente esposti agli attacchi dell’Azerbaigian. Il timore è che il presidente azero Aliyev non si accontenterà di queste concessioni ma, al contrario, dopo la firma avanzerà altre pretese.

 

Arnie e vecchie macchine agricole in un campo. Foto di Sebastiano Teani

 

I manifestanti lamentano dunque l’iniquità della cessione, ennesima testimonianza della superiorità militare di cui gode Baku. D’altro canto, se in questo momento Yerevan sostenesse un braccio di ferro con Baku si riaprirebbe l’opzione militare e Pashynian sa bene che l’Azerbaigian potrebbe prendersi con la forza i quattro villaggi in poco tempo, con il rischio di non fermarsi a quelli. Sarà compito del governo cercare un delicato equilibrio tra rivendicazioni interne e pressioni esterne, per evitare l’ennesima escalation o, peggio, uno scontro diretto che in questo momento l’Armenia non sarebbe in grado di sostenere.

Nelle strade di Yerevan si intrecciano proteste e repressione, si incontra una società civile a favore della soluzione diplomatica e sostenitori dell’opposizione accampati nelle piazze. Muovendosi in questo intrico di contraddizioni, più volte è capitato di sentir dire che la vita nei villaggi di frontiera non è molto diversa da quella nella capitale. Frasi che non trovano riscontro nelle testimonianze di chi il confine lo abita davvero.

 

La strada per Nerkin Khndzoresk. Foto di Sebastiano Teani

 

Samvuel rimane perplesso quando gli riportiamo queste parole, lui che abita a Nerkin Khndzoresk non può immaginarsi niente di più distante dalla sua vita della frenesia e dei palazzi di Yerevan. Siamo nella provincia di Goris, nell’estremo sud-est del paese, in un piccolo villaggio fondato nel 1983 e raggiungibile solamente attraverso una strada disastrata che si snoda per diversi chilometri lungo il confine, sorvegliata dalle postazioni trincerate dell’esercito nemico. Il villaggio è stato fondato dalle autorità sovietiche con il dichiarato intento di arginare le incursioni provenienti dalla vicina RSS d’Azerbaigian (Repubblica Socialista Sovietica). Ciononostante, gli sconfinamenti si verificano ancora oggi, con incursioni da parte di soldati azeri che valicano il confine per rubare bestiame o accaparrarsi di terreno, spostando sempre più in là il limite. Molti contadini armeni, come Samvuel, non possono più coltivare terre di loro proprietà perché minacciati dai militari.

 

Samvuel nella via dove abita. Foto di Sebastiano Teani

 

Il villaggio raccoglie 70 famiglie adagiate in una conca lambita su tre lati dal confine, una spina di terra armena conficcata nel fianco dell’Azerbaigian. Le postazioni dell’esercito azero attorno al paese sono aumentate dopo la disfatta del Nagorno Karabakh del settembre scorso, arrivando alle attuali quindici. “Di notte vediamo movimenti di macchine e mezzi oltre il confine” racconta Samvuel, “probabilmente stanno rinforzando le posizioni o progettando qualcosa, speriamo la prima delle due”. È paradossale pensare che, nonostante il tangibile senso di pericolo, nessuno degli abitanti voglia andarsene da Nerkin Khndzresk. L’incentivo a rimanere arriva anche dal governo, il quale stanzia sussidi per chi erige nuove abitazioni lungo le zone di confine. Narek, il padre 73enne di Samvuel, ci dice entusiasta che stanno costruendo dieci nuove case per accogliere gli sfollati del Nagorno Karabakh. “Le persone del Karabakh sono ingegnose, arricchiranno sicuramente la comunità”.

 

Case in costruzione per gli sfollati del Nagorno Karabakh. Foto di Sebastiano Teani

 

“Da noi si dice: piantare fiori per arginare le erbacce” continua Narek, “sono le persone che rendono sicuro il confine. Qui c’è la mia attività, la mia terra, la mia vita. Anche se venissero gli azeri preferirei morire qui combattendo che andarmene”. Sulla quotidianità aleggia una cappa pesante, tutti gli abitanti vivono con il pensiero assillante di poter essere costretti a scappare da un momento all’altro. C’è già pronto un piano di evacuazione per donne e bambini, anche se in realtà nessuno di loro abbandonerà il villaggio, tutti vogliono restare per combattere. Nonostante questo pericolo costante, in questo punto la frontiera non è presidiata dall’esercito ma solo dal National Security Service, corpo di intelligence governativo nato dalle ceneri del KGB.

 

Narek di fronte alla casa dove abita con la susua famiglia. Foto di Kevork Hayrabedian

 

L’NSS non può intervenire militarmente ma deve limitarsi all’osservazione del confine, richiedendo l’intervento delle Forze Armate in caso di necessità. Questa mancanza amplifica il senso di abbandono e gli abitanti si sentono osservati dalle postazioni trincerate, sanno che i soldati nemici seguono costantemente i loro movimenti dalle feritoie.

Quando è scoppiata la prima guerra tra Armenia e Azerbaigian, nel 1992, gli eserciti erano sguarniti e privi dell’equipaggiamento essenziale, spesso anche delle divise, perciò i primi scontri furono assalti all’arma bianca. “Per combattere usavamo quello che avevamo: accette e falcetti”, ricorda Narek. Gli armeni sono riusciti a vincere nel ‘94 perché erano più motivati e compatti, “ma ora la solfa è cambiata, gli azeri hanno droni e armi all’avanguardia [molti dei quali forniti da Israele, ndr], noi solamente vecchi fucili in soffitta”. Mentre Samvuel cuoce sulla brace i Khorovats – tipici spiedi armeni, Narek ci spiega come, alla fine della guerra, il governo intimò a tutti i cittadini armeni di riconsegnare le armi, ma Nerkin Khndrzersk insorse e costrinse le autorità a concordare una deroga in virtù della particolare situazione del villaggio. Per questo gli abitanti sono tra i pochi autorizzati a tenere i fucili e quasi tutte le case sono dotate di un rifugio sotterraneo, con tanto di feritoie da cui sparare rimanendo al coperto. Samvuel ci mostra il rifugio in cui sono sempre pronti a riparare in caso di attacco e che funge anche da cantina, stracolmo di barattoli di conserve, verdure sottaceto e frutta in agrodolce. L’ultima volta che l’hanno usato è stato nel settembre del 2022, quando l’Azerbaigian ha sferrato un attacco in varie aree di confine ed è penetrato in territorio armeno per diversi chilometri, anche grazie all’uso di bombardamenti ed artiglieria pesante, causando centinaia di morti tra militari e civili.

 

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Areg nel rifugio sotterraneo. Foto di Sebastiano Teani

 

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Narek, Samvuel e il figlio Areg. Foto di Sebastiano Teani

 

Hermine e Davit sono i vicini di Samvel e abitano nell’ultima casa del villaggio, a poche centinaia di metri dal confine. Grazie all’aiuto di Near East Foundation sono riusciti ad aprire un panificio adiacente alla loro abitazione, servendosi dello stesso stanzone in cui, durante la guerra del 2020, offrivano rifugio ai soldati impegnati al fronte. Il salone era stracolmo di brandine dove i militari potevano riposare, mentre Hermine cucinava per loro. “Nell’arco di 5 mesi sono circa 5000 i soldati passati di qui”, racconta, “nel frattempo Davit combatteva al fronte e al telefono mi diceva che andava tutto bene, anche se non era vero”. Il laboratorio è anche dotato del tipico forno a pozzo con cui si cuoce il lavash, pane tradizionale che viene cotto sulle pareti incandescenti di pietra. “Preparare il lavash è un arte complessa e nessuno che sia in grado di farlo vuole venire a vivere quaggiù” sospira sconsolata Hermine, guardando il forno spento e impolverato. “Lavoro sempre di notte, sapere che sono sveglia quando tutti dormono mi illude di poter proteggere i miei cari”. Quando nel 2020 hanno bombardato il villaggio, il figlio piccolo di Hermine e Davit era convinto che fosse stata la madre a non farli colpire. “Lui credeva che fossi una supereroina e io gliel’ho lasciato credere”. Quando all’alba finisce di lavorare e vede i contadini che si dirigono alle stalle può finalmente coricarsi.

 

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Il rifugio sotterraneo usato come cantina. Foto di Kevork Hayrabedian

 

Quando Hermine deve allontanarsi dal villaggio è doppiamente contenta: quando sale in macchina, perché sente di potersi lasciare alle spalle la tensione, anche solo per qualche ora; e quando torna, felice di non aver mollato e di essere di nuovo lì. “Anche se non c’è una chiesa nel villaggio, io sento che questa terra è sacra”.

 

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Hermine di fronte alla sua abitazione. Foto di Kevork Hayrabedian

 

Nonostante vivano questa tensione quotidianamente, non c’è rassegnazione nei loro volti, Samvuel ci mostra con orgoglio la novità: da poco è riuscito a far arrivare nella sua stalla un impianto idroponico con cui coltivare foraggio per gli animali in ogni stagione, con cicli di crescita di soli 8 giorni. Oltre al lavoro, seppur incessante, Samvuel, sua moglie ed Hermine insegnano nella scuola di paese, investendo molto nell’educazione delle nuove generazioni. Davit, invece, dopo aver distribuito il pane a tutte le famiglie del villaggio, va a lavorare il terreno su cui ha appena piantato mille alberi.

 

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Narek va al lavoro nelle stalle. Foto di Kevork Hayrabedian

 

Mille alberi di cui vuole credere che suo figlio potrà raccogliere i frutti, e così i figli dei suoi figli. Questi alberi testimoniano silenziosi la resistenza quotidiana di questa gente, la dignità e la tenacia che sovrastano le barbarie e i soprusi. Gli abitanti di Nerkin Khndzoresk affrontano ogni giornata con orgoglio e amara consapevolezza. “È al costo della nostra stessa vita che costruiamo qualcosa per il villaggio”.

Chi è Sebastiano Teani

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