Il 1° gennaio 2024 termina la trentennale esperienza di indipendenza del Nagorno Karabakh. La popolazione, costretta a riparare in Armenia, prova a ricostruirsi una vita tra difficoltà quotidiane, nuove prospettive e la speranza di tornare nella propria terra.
Nel settembre 2023 l’Azerbaijan sferra un attacco su larga scala contro l’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh – o Artsakh, come la chiamano gli armeni- con l’obiettivo di riprendere il controllo totale del territorio. La gravità della situazione è evidente e, data la disparità di forze e l’imponenza dell’attacco, le autorità karabakhe sono obbligate a trattare con gli Azeri: dopo nove giorni il Presidente della Repubblica firma la resa totale e sancisce lo scioglimento delle istituzioni statali a partire dal primo gennaio 2024. Dopo più di trent’anni di guerre e di pace armata, sembra finire così la lotta secolare per l’autodeterminazione e per l’indipendenza dell’Artsakh.
Fino al 1991 il Nagorno Karabakh era una regione autonoma a maggioranza armena della Repubblica Socialista Sovietica d’Azerbaigian, rivendicata da entrambi gli stati sin dalla loro nascita moderna nel 1918. Un territorio montuoso, grande all’incirca come il Molise, privo di significative risorse naturali ad eccezione di alcuni corsi d’acqua e di piccoli giacimenti d’oro. Nelle montagne del Karabakh, ormai sotto il controllo azero, rimane racchiusa la culla della cultura Hayk, termine con cui gli armeni chiamano il proprio popolo. In uno dei numerosi monasteri sparsi sulle montagne, ad Amaras, il monaco Mashtots nel V secolo d.c. codificò l’alfabeto armeno. Oggi, agli esuli impotenti, non resta che guardare i video diffusi in rete raffiguranti l’esercito azero nell’atto di distruggere i palazzi delle istituzioni d’Artsakh, le chiese ed il patrimonio artistico e archeologico armeno, per cancellare ogni traccia della millenaria presenza cristiana su queste terre.
Una volta firmata la resa, lo scorso settembre, la popolazione è costretta alla fuga. In questa guerra, così come nelle precedenti, non è contemplata l’ipotesi di poter vivere sotto il controllo del nemico. Sin dagli anni ‘90 i due popoli hanno cessato ogni forma di convivenza, sostituendola con la violenza. Da entrambe le parti. Praticamente nessun armeno vive più in Azerbaigian e viceversa, altrimenti rischierebbe la vita. L’obiettivo dell’attacco dello scorso settembre non è dunque solo territoriale, Baku vuole la pulizia etnica della regione ed il messaggio è chiaro, tanto da spingere le autorità karabakhe a esortare tutta la popolazione a fuggire in Armenia. Nei momenti di pericolo riemergono i ricordi, ancora troppo vividi, delle atrocità commesse dal nemico nel 2020 e nelle guerre precedenti. Risuonano in queste valli gli echi dei pogrom e delle stragi, riportando la memoria collettiva indietro fino al genocidio degli armeni del 1915. Fu così che più di 100.000 persone fuggirono con ogni mezzo possibile, molti a piedi, lungo il corridoio di Lachin -l’unica arteria di collegamento con l’Armenia- e si riversarono nella regione di Syunik formando un esodo visibile dal satellite.
La prima cittadina che i profughi incontrano è Goris, un insediamento di 20mila anime, strade perpendicolari e case basse spalmate in un’ampia vallata che si è trovata improvvisamente a gestire un flusso enorme di profughi. “Era chiaro a tutti che rimanere equivaleva ad essere uccisi” racconta Gyulnara, “durante la guerra degli anni ‘90 il mio villaggio è finito in mano nemica per due settimane, siamo fuggiti tutti tranne alcuni anziani che non volevano abbandonare la propria casa. Quando siamo tornati li abbiamo trovati sgozzati.” Prima della fuga il figlio più giovane si trovava al fronte mentre Gagik, il marito, si dava da fare con le squadre di becchini volontari che cercavano di seppellire le centinaia di vittime di pochi giorni di combattimenti.
La sua famiglia in fuga si è stabilita a Kornidzor, piccolo villaggio lungo il confine armeno, dove fortunatamente viveva già la figlia Lida da qualche anno. Lida e la sua famiglia, nei giorni più tragici, ospitarono 30 profughi nella loro casa di poche stanze fino a che, con l’andare dei giorni, le varie famiglie hanno trovato una sistemazione adeguata. Quando li incontriamo, diversi mesi dopo, in casa sono rimasti solo i suoceri e dalla terrazza si vede il confine con le postazioni trincerate dei due eserciti che si fronteggiano, a poche decine di metri l’una dall’altra. Non sono spaventati dalla vicinanza del confine, anzi, vogliono restare a Kornidzor in modo che “quando l’Artsakh sarà liberato saremo tra i primi a rientrare“. Gyulnara e il marito sono in attesa di poter entrare nella loro nuova casa, un’abitazione del paese che hanno ristrutturato con l’aiuto di una ONG francese. La stessa organizzazione supporta gli armeni che hanno accolto i profughi karabakhi, finanziando l’acquisto di serre, in modo che possano coltivare tutto l’anno erbe aromatiche e verdure da vendere in città.
Ed è proprio con queste erbe che Silviya, a Goris, prepara il famoso Jingalov Hats, una specie di calzone ripieno di erbe aromatiche, piatto simbolo del Nagorno Karabakh. Il Comune le ha concesso in comodato una casetta di legno in piazza, dove può condurre la sua attività con la socia Danyiela. Quando hanno affrontato il viaggio sua nipote aveva appena 6 giorni e della sua vita precedente le era rimasto solo quello che aveva addosso. “Anche se l’Artsakh venisse liberato non ci tornerò” afferma irremovibile, “a Goris si sta bene, siamo al sicuro qua”, nonostante l’estrema vicinanza con il confine e le tensioni con l’Azerbaigian che non accennano a diminuire. Non può più immaginarsi di tornare a vivere ancora alla mercè degli azeri, dopo che l’enclave armena ha subito un blocco totale di 9 mesi, il “blokade”. Il 12 dicembre 2022, un gruppo di sedicenti ecologisti azeri inscenò una protesta contro i “danni ambientali” causati da due piccole miniere in territorio karabakho, e con un “presidio ecologista” bloccò completamente il traffico lungo la statale che collega Goris a Stepanakert, capitale dell’Artsakh. Con il passare delle settimane il presidio si trasformò in un vero e proprio checkpoint presidiato dai militari e non fu permesso a nessuno di entrare od uscire dal paese. Il tutto si svolse sotto gli occhi delle forze di peacekeeping russe che avrebbero dovuto garantire l’apertura del corridoio. Inizialmente potevano transitare solo i mezzi russi e quelli della Croce Rossa ma con l’andare del tempo fu vietato anche a questi di portare aiuti e medicine nella regione. Oltre al blocco stradale vennero manomesse le linee elettriche, le telecomunicazioni e i gasdotti. La popolazione dovette resistere alla fame e al freddo per un lungo inverno e per tutta l’estate successiva, senza poter ricevere aiuti di alcun tipo, mentre la crisi umanitaria si faceva sempre più grave. Alcuni Paesi, come la Francia, inviarono aiuti umanitari ma i convogli rimasero bloccati al confine senza l’autorizzazione ad entrare.
Gulnara Shahinian, fondatrice della ONG armena “Democracy Today“, sostiene che l’Azerbaijan, con l’aiuto dell’intelligence ed il supporto bellico di Israele, abbia messo in pratica le stesse tecniche di oppressione e isolamento che pochi mesi dopo sarebbero state applicate a Gaza. “Il cibo e le medicine scarseggiavano, però non ci siamo fatti abbattere e il 2 settembre abbiamo festeggiato per le strade il 22esimo anniversario della nostra indipendenza”, Silviya ci mostra orgogliosa le foto dei bambini sorridenti e vestiti a festa, alternate alle immagini delle code fuori dai punti di distribuzione del cibo, da cui però spesso si tornava a mani vuote. Mentre ci gustiamo il secondo Jingalov hats ci raggiunge anche Armen, il figlio di Sonya, ex-poliziotto karabakho che ha combattuto sul fronte l’avanzata azera fino al 29 settembre scorso , negli ultimissimi concitati giorni prima della fuga di massa. Del suo battaglione di 43 uomini solo 13 hanno tenuto la posizione di fronte al nemico, ormai vicinissimo, e lui era uno di quelli. “I nostri superiori ci avevano promesso che se avessimo tenuto la postazione, una volta riparati in Armenia avremmo trovato un posto nella polizia, ma è una sciocchezza, qui le autorità di uno Stato che non esiste più non hanno nessun potere”. Ora è disoccupato, e abbattuto. Come molti altri nella sua situazione non vuole chiedere la cittadinanza armena, che otterrebbe automaticamente di diritto, perché così facendo perderebbe lo status di rifugiato e con esso i sussidi che gli versa il governo. Sconsolato ci saluta e se ne va perché ha un appuntamento per vedere una casa in affitto, sperando che sia quella buona. Immaginare oggi che la fragile Armenia abbia le forze per riconquistare il Nagorno Karabakh è praticamente impossibile per la stragrande maggioranza della popolazione. Non tutti sono però rassegnati a questa condizione: “la partita finale non è ancora stata giocata e non dipende da noi ma dalla nostra capacità di trovare un protettore importante” spiega Paghos, dirigente scolastico di Aghavno, villaggio karabakho. Non ha abbandonato i suoi studenti fino alla fine, dopo essersi arruolato tra le fila dei volontari per difendere la propria terra. Quando la situazione si è fatta disperata ha riparato a Tegh, appena oltre il confine.
Paghos si riferisce alla politica estera del premier armeno Nikol Pashinyan il quale, sin dalla sua elezione nel 2018, ha tentato di smarcarsi dalla Russia per cercare di avvicinarsi all’Europa, nonostante il Paese dipenda quasi interamente da Mosca dal punto di vista energetico e bellico. Una mossa che evidentemente non è piaciuta a Putin, il quale ha stretto i suoi rapporti con l’Azerbaigian e ha diminuito il suo supporto militare e bellico all’Armenia, favorendo di riflesso l’attacco azero di settembre. L’invasione dell’Artsakh e il blocco del corridoio di Lachin sono state delle violazioni deliberate del trattato trilaterale firmato nel novembre 2020 tra Russia, Armenia e Azerbaigian. L’accordo prevedeva la presenza delle forze armate russe a presidiare il territorio e garantire i termini del trattato. Nonostante ciò, l’Azerbaigian si è mosso indisturbato sotto gli occhi dei soldati di Mosca con una dinamica tale da lasciar intendere che Baku abbia agito con il tacito consenso di Putin. I recenti sviluppi volgono a favore di questa interpretazione: infatti, il 17 aprile 2024 le truppe russe stanziate in Nagorno Karabakh hanno iniziato le manovre per lasciare completamente la regione, ritirandosi in anticipo rispetto alle tempistiche previste. In questo modo Putin sancisce definitivamente il proprio beneplacito all’operazione azera. Da Tegh si vede chiaramente Lachin. Poghos ci racconta che di notte sulle montagne di fronte vedono luci e mezzi da costruzione in movimento, significa che qualcuno si è già insediato nelle case abbandonate dagli armeni. Il governo azero ha promesso una casa e del terreno nei territori “liberati”, cercando di risolvere il problema della povertà e della disoccupazione che affligge il paese rurale, offrendo alla popolazione la possibilità di colonizzare villaggi e città che furono armene. La speranza di riprendere il controllo della regione è viva sia nei giovani che nei più anziani, anche se sanno che non potrà accadere presto e che bisogna avere pazienza. Il fratello ventunenne di Lida, appena arrivato in casa della sorella, dopo la fuga di settembre, ha preso in braccio il nipotino e l’ha tranquillizzato a modo suo: “ho sotterrato dietro casa un fucile e una bottiglia di vodka, uno per combattere e l’altra per brindare al nostro ritorno”