Nei giorni scorsi l’organizzazione non governativa tedesca Medica Mondiale ha presentato i risultati di uno studio condotto in cooperazione con la ONG kosovara Medica Gjakova, sulle ricadute psicologiche di cui soffrono le persone che sono state vittima di abusi sessuali nel corso della guerra in Kosovo.
Lo studio si proponeva di investigare lo spettro del Post Traumatic Stress Disorder (PTSD), ovvero le condizioni di sofferenza psicologica che affliggono gli individui che hanno subito un evento drammatico e violento. L’analisi ha coinvolto duecento persone, perlopiù donne e in maggioranza di etnia albanese, in rappresentanza di tutte le fasce d’età, provenienza, estrazione sociale e livello di scolarizzazione.
I risultati dello studio
Disordine emotivo, flashback, persistente senso di minaccia e difficoltà ad addormentarsi sono i sintomi più frequentemente riportati; sintomi che hanno come conseguenza l’insorgere di livelli di stress e ansia oltre i limiti del patologico. Livello che, secondo i risultati pubblicati dalla ricerca, sarebbe oltrepassato dal 73% delle intervistate per le quali è dunque possibile diagnosticare il PTSD conclamato, lo stress post-traumatico; a questa percentuale si deve aggiungere un ulteriore 13% di persone che superano gran parte dei criteri diagnostici, a complemento di un quadro drammatico in cui il 95% degli individui può essere definito come depresso e il 30% manifesta intenzioni suicidarie.
Lo studio riporta testimonianze di donne che hanno persino difficoltà ad aprire la porta di casa “perché ho paura che stiano tornando” e di altre che affermano di “ricordare tutto” e di sentirsi costantemente stanche. Effetti, dunque, che non solo non si affievoliscono con il tempo ma che hanno lasciato un segno indelebile, costringendo il 57% di loro a fare uso sistematico di ansiolitici e addirittura il 71% ad affermare d’aver pensato che la propria vita non valesse più la pena d’essere vissuta. Ripercussioni che in moltissimi casi vengono riversate sulle generazioni successive, sui figli, cui si trasmette il terrore per “le stanze buie” o – ancora – per le “strade sconosciute”, condizionando indissolubilmente il proprio stile di vita e quello della propria famiglia.
Il contesto della guerra, quello della società
Durante la guerra in Kosovo lo stupro non fu un atto occasionale, sporadico, casuale. Fu, al contrario, un gesto lucidamente cinico, sistematicamente compiuto come strumento di guerra, un crimine complementare alle uccisioni e ai massacri con cui – infatti – condivideva il fine ultimo: la pulizia etnica, la cancellazione dell’altro.
Sono i numeri ad avvalorare la magnitudine del dramma: pur mancando stime ufficiali, numerose fonti accreditano in diverse migliaia – forse addirittura 20.000 – le persone (perlopiù donne) sottoposte a violenze sessuali spesso reiterate e perpetrate in gran parte da appartenenti alle truppe militari e paramilitari serbe – sebbene siano ampiamente dimostrate situazioni anche a parti invertite, specie a guerra finita.
Ma un altro elemento deve essere considerato per inquadrare pienamente il contesto, ovvero quello che descrive la società kosovara come una società profondamente patriarcale, con le sue norme arcaiche, i suoi tabù, le sue regole non scritte – ma profondamente radicate – sull’onore e il disonore, la virtù e la vergogna. All’aggressione fisica le donne kosovare hanno dovuto dunque aggiungere il peso – insostenibile – dello stigma sociale, dell’emarginazione, dell’isolamento, in un rovesciamento di ruoli tra vittima e carnefice tanto assurdo quanto evidente.
Tre donne su quattro, tra le partecipanti al sondaggio, hanno ammesso di non parlare mai dell’accaduto per timore di essere “additata dai vicini” o di “portare vergogna ai miei figli” e – fatto ancora più esemplificativo – “di essere abbandonata dalla famiglia”. Un paradosso che ha portato molte di loro a non dire nulla dell’accaduto per evitare che “il peso cadesse sulle spalle di mio padre” e a rifiutare sistematicamente qualsiasi contatto sociale o a farsi curare. Vista da questa prospettiva risulta ancora più significativo il titolo scelto dalle autrici per il rapporto “Non sono colpevole per ciò che mi è successo”.
… ma qualcosa sta cambiando
Non deve quindi sorprendere che ci siano voluti vent’anni perché una di quelle donne avesse il coraggio di alzare la voce pubblicamente, di rivelare quello che tutti sapevano ma nessuno diceva. È stata Vasfjie Krasniqi Goodman, la prima, era il 2018: raccontò in televisione l’aggressione, l’abuso subito da un agente di polizia serbo quando aveva solo sedici anni. Oggi Krasniqi Goodman è parlamentare eletta con il partito di governo Lëvizja Vetëvendosje, ma dopo la guerra ha vissuto per anni negli Stati Uniti. Ha dovuto quindi mettere una distanza anche fisica col suo mondo, con quella società, per raccogliere le energie e per trovare il coraggio di squarciare il velo d’omertà.
Se sul piano giudiziario poco o nulla è stato fatto e, ancora oggi, si contano sulle dita di una mano i responsabili puniti per questo crimine, qualcosa di più si è mosso sul piano politico e sociale. Già nel 2014 il parlamento kosovaro aveva approvato una legge per il riconoscimento di status di vittima di abusi sessuali, anche se si è dovuto aspettare il 2017 per veder finalmente completato il percorso normativo che consentiva l’accesso all’indennizzo economico che tale status prevedeva.
Nel loro rapporto le ONG evidenziano che il 63% dei sopravvissuti percepisce oggi il sussidio ma – fatto ancor più significativo – che solo il 2% degli aventi diritto non ha presentato domanda, pur essendo a conoscenza di questa opportunità. Un dato per nulla scontato, quest’ultimo, visto che la presentazione stessa della domanda implica l’ammissione d’aver subito violenza, ammissione – come visto – nient’affatto banale. Dato esemplificativo, però, di una maggior consapevolezza e di una crescente maturità della società kosovara nella valutazione e nel giudizio di questo crimine: e se è vero che ancora oggi solo il 25% delle intervistate sente d’essere pienamente riconosciuta nel suo “ruolo” di vittima, è altresì vero che la percentuale di coloro che percepisce la totale assenza di tale riconoscimento è limitata a un residuale 5%. Ciò equivale a dire che sul piano sociale la società kosovara ha fatto, negli ultimi dieci anni, passi da gigante.
Le ferite dell’anima, dunque, fanno fatica a rimarginarsi ma si intravede – in fondo – una luce d’accoglienza per le vittime e, di riflesso, un barlume di speranza per le nuove generazioni.
Foto: Pagina Facebook Medica Gjakova