Un editoriale del quotidiano londinese The Guardian del 2 gennaio mette il dito nella piaga sul problema della cattura dello stato nella Serbia di Vučić dopo le contestate elezioni del 17 dicembre. Una traduzione.
Secondo il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, le recenti elezioni parlamentari sono state “le più pulite e oneste” della sua storia. Sono state anche un trionfo per il suo erroneamente chiamato Partito Progressista Serbo (SNS), che ha vinto con una valanga di voti. Ma l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa ne ha avuto una diversa impressione.
Il voto del 17 dicembre, secondo una dichiarazione degli osservatori internazionali, si è svolto in “condizioni ingiuste”, rovinate da “pregiudizi nei media, pressioni sui dipendenti del settore pubblico e uso improprio delle risorse pubbliche”. Sono stati segnalati casi di intimidazione e “gravi irregolarità”, tra cui compravendita di voti e brogli elettorali. I serbi di Bosnia sarebbero inoltre stati trasportati in massa in autobus per votare fraudolentemente a Belgrado, secondo le accuse.
La violazione delle norme democratiche e dello stato di diritto in Serbia hanno gradualmente accelerato da quando il SNS ha preso il potere oltre un decennio fa – un caso da manuale di cattura dello Stato, supervisionato dal presidente Vučić dal 2017. Un nazionalista autocratico i cui istinti politici si sono forgiati nell’era Milošević, Vučić usa il suo potere e la sua influenza anche per fomentare la discordia nei Balcani occidentali, dove le campagne secessioniste dell’etnia serba sono sostenute da Belgrado. Ma l’ambizione di portare la Serbia nell’orbita UE – e lontano dall’influenza russa – ha attenuato le critiche occidentali a un livello compromettente, in particolare dopo l’invasione dell’Ucraina.
Questo approccio mollificante potrebbe presto esaurirsi. Giorni di manifestazioni hanno fatto seguito alle elezioni contestate, sulla base di un fiorente movimento di protesta anti-Vučić iniziato in estate. Lo scorso fine settimana, decine di migliaia di persone si sono radunate in piazza a Belgrado per opporsi a un regime di stampo miloševićiano e chiedere a un’Europa in gran parte silenziosa di sostenere la loro causa. A dimostrazione delle istintive simpatie del governo, la premier di Vučić, Ana Brnabić, ha ringraziato la Russia per aver fornito presunte prove che le proteste siano state orchestrate in Occidente.
Le indicazioni di un rinnovato conflitto regionale promettono di imporre una linea più dura a Bruxelles e Washington. A novembre, Vučić aveva minacciosamente previsto che il 2024 porterà “molti più conflitti e disordini” sia in Kosovo che nella Republika Srpska – l’entità a maggioranza serba in Bosnia Erzegovina. In quest’ultima, il leader separatista serbo-bosniaco, Milorad Dodik, ha minacciato di stracciare gli accordi di pace di Dayton del 1995 in nome dell’unificazione nazionale serba. In Kosovo – la cui indipendenza Belgrado continua a rifiutarsi di riconoscere – gravi focolai di conflitto nel nord a maggioranza serba hanno fatto temere un futuro tentativo di secessione.
Si sono rivelate infondate le speranze che la prospettiva di adesione all’UE possa persuadere il governo serbo a rispettare le norme democratiche in patria e ad astenersi da minare gli stati vicini. Con l’obiettivo strategico di isolare la Russia – anch’esso irrealizzato – l’Occidente continua a concedere a Vučić troppa libertà di perseguire la sua agenda autoritaria ed etno-nazionalista.
Come uno dei principali investitori nell’economia in crescita della Serbia, l’UE è vista con favore da gran parte della popolazione e ha una leva economica e diplomatica da utilizzare, se lo desidera. Finora ha deciso di non farlo, per il comprensibile timore – condiviso dall’amministrazione di Joe Biden – di lasciare i Balcani ancora più vulnerabili all’influenza di Mosca e Pechino. Mentre Vučić si trincera sempre più nel suo cortile, per l’UE trattarlo come una sorta di figliol prodigo che alla fine si ravvedrà non è la soluzione.
Foto: Euronews