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Controffensiva ucraina, è presto per cantare il requiem

La controffensiva ucraina procede a rilento, si dice. Le voci critiche si moltiplicano, si torna ad affermare l’invincibilità dei russi – e la conseguente vanità della resistenza. Eppure sembra francamente presto per intonare il requiem all’Ucraina. Anzitutto siamo ancora in una fase preliminare, di ricognizione, in cui le forze armate ucraine si avvicinano alla linea del fronte, prendono contatto col nemico. Niente sfondamenti, niente attacchi. Non ancora, almeno. Poiché la cosiddetta “controffensiva” dovrà essere portata avanti avendo cura di conservare il proprio potenziale bellico: le forti perdite di uomini, la limitata dotazione di mezzi, l’assenza di un’aeronautica, impongono la cautela. Quello russo, benché in difficoltà logistiche e privo di ufficiali, è un esercito numeroso e potente. Averlo fermato – come è stato fermato, anzi ricacciato indietro da Kiev, da Kharkiv, da Cherson – è un’azione che testimonia già l’efficacia della resistenza ucraina. Una resistenza che oggi, per la seconda volta, tenta di andare al contrattacco. Un contrattacco ancora da compiersi, malgrado in tanti mostrino carri Leopard in fiamme. Le brigate predisposte per questa controffensiva, organizzate e armate dall’Occidente, non sono ancora state utilizzate a riprova del fatto che la controffensiva, semplicemente, ancora non è partita.

La pioggia batte sui campi di battaglia, e dovrà asciugare il fango. I russi sono trincerati, si dice, e hanno fin qui usato appena il 10% delle proprie forze. I russi hanno un’artiglieria potente, si spiega, mentre agli ucraini mancano le munizioni. La retorica filorussa – che passa oggi anche dallo sminuire lo sforzo militare ucraino – esce allo scoperto e costringe tutti, sui social, sui giornali, sulle televisioni, a dire la propria. Questo fa un regime, elimina il silenzio e costringe la gente a esprimersi. Questo fa la propaganda russa che, in Europa, vede tutti i suoi agenti al proprio posto. Così, fingendo di piangere le perdite ucraine, si evidenzia l’impreparazione di Kiev, l’inutilità del sostegno occidentale, la forza della Russia.

Una Russia che sarebbe pronta a scatenare la terza guerra mondiale ora che armi nucleari tattiche sarebbero state portate in Bielorussia. Ma la minaccia atomica è rivolta alle opinioni pubbliche occidentali. Spaventarle affinché facciano pressione sui governi e sui gruppi politici spingendoli ad abbandonare il sostegno a Kiev. Infatti, il Cremlino avrebbe una chance di vittoria solo se l’Occidente dovesse ritirare, in parte o del tutto, il proprio sostegno economico e militare all’Ucraina. Ecco allora che lo spettro dell’olocausto nucleare diventa un’arma di guerra ibrida, più che una concreta prospettiva bellica. Anche perché i famosi missili nucleari sono stati spostati in depositi, non in basi di lancio. Il procedere del conflitto rende infine sempre più improbabile un coinvolgimento diretto dell’esercito bielorusso, sulla cui fedeltà al regime non v’è certezza, come invece c’è sulla sua totale inefficienza.

La “sanguinosa offensiva ucraina” – come è stata definita – è in realtà una controffensiva, un’azione di difesa, che certo costerà vite il cui sacrificio è però da attribuire unicamente a Vladimir Putin che ha attaccato un paese intero la cui colpa sarebbe, secondo gli epigoni del Cremlino, quella di volersi difendere. Un paese che ha dimostrato un’inattesa capacità di resistenza militare ma anche politica: Zelens’kjy è un presidente eletto democraticamente, non un signore della guerra locale, ed è proprio la legittimità del suo governo a garantire la coesione delle forze armate. Non partigiani, non bande armate – naziste, o quel che si preferisce – ma un esercito regolare, inquadrato, che risponde a un comando unificato. Un problema per il Cremlino che, infatti, continua nella sua opera di demonizzazione del presidente Zelens’kjy, sostenuto dai troppi fresconi dell’Occidente. Gli stessi che già srotolano mappe indovinando con certezza la direzione della controffensiva: Melitopol’, invariabilmente, “ma i russi sono fortificati”, gongolano. Eppure le linee sono molte, quella verso Mariupol’, quella verso Lugan’sk, quella verso la Crimea e il ponte di Kerch.

Soprattutto si omette di dire che, qualora coronata dal successo, la controffensiva ucraina potrebbe finalmente aprire alla pace, costringendo la Russia a un negoziato. La pace, insomma, è oggi più vicina che mai. Lo è come sono le speranze, i sogni. Il realismo impone però più moderate aspettative. Ma, contrariamente ai molti che già le scavano la fossa, l’Ucraina non è ancora morta.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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