STORIA / 8 – Vent'anni dopo, Back to USSR

di Susanne Scholl

traduzione di Lorenza La Spada

/ 1: Il 1991, un anno chiave

/ 2: L’Unione Sovietica di fronte a una prova decisiva

/ 3: Primavera 1991, al culmine della crisi

/ 4: Il matrimonio tra Eltsin e Gorbaciov

/ 5: La Russia elegge Boris Eltsin

/ 6: Lo scontro si inasprisce

/ 7: La fine dell’Unione Sovietica e le sue conseguenze

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L’impotenza dopo un colpo di stato fallito (leggi l’articolo originale)

Svanita l’euforia seguita al fallimento del colpo di stato di metà agosto, prese il sopravvento un senso di impotenza. Il Congresso dei Soviet, ovvero il parlamento, era in sessione permanente ma non giungeva a nessuna conclusione su quale direzione avrebbe dovuto prendere l’impero e giorno dopo giorno si perdeva un pezzo. Inoltre, in questo autunno del 1991, si aggiunse anche la questione della sopravvivenza, perché le Repubbliche sovietiche erano economicamente legate e una separazione avrebbe portato pesanti svantaggi economici per tutte.

Tuttavia nel settembre 1991 era chiaro che gli Stati baltici non sarebbero rimasti, anche se ci fosse stata una riforma strutturale radicale dell’Unione Sovietica, che oramai esisteva solo nominalmente come prima. Anche altre Repubbliche, tra cui la Georgia e l’Ucraina, dichiararono l’indipendenza.

Il conflitto tra il presidente russo Boris Eltsin e il presidente URSS Mikhail Gorbaciov rimaneva evidente. Sembrava che i due cercassero di scavalcarsi a vicenda. Così Eltsin si mise in mezzo alla contesa tra l’Armenia e all’Azerbaigian, nella regione montuosa del Karabakh, per tentare una mediazione.  E (anche se per breve tempo) gli riuscì.

Nel frattempo il Parlamento sovietico continuava a tormentarsi con domande sul futuro e più di uno chiedeva a gran voce che si desse il via ad una nuova forma di Unione. Nessuno però fu sfiorato dall’idea, vista la situazione, se fosse opportuno pensare a delle nuove forme democratiche e indire delle elezioni degne di questo nome.

Intanto la situazione economica era sempre precaria. Tutte le ex Repubbliche sovietiche rinnegate erano impegnate con la questione di come comportarsi nei confronti del governo centrale ancora esistente. E mentre a Mosca si era alle prese con una nuova forma di convivenza tra le singole Repubbliche, la situazione in altre parti dell’ex Impero iniziava un’escaltion; ad esempio in Georgia, dove il nuovo presidente dai toni dittatoriali, Zviad Gamsakhurdia, aveva denunciato l’opposizione come criminale e faceva il primo passo verso una breve ma sanguinosa guerra fratricida.

Boris Eltsin lasciava credere che ci sarebbe stata una maggiore libertà, come tutti ritenevano necessario. E fu una speranza fatale, specialmente per le conseguenze catastrofiche che ebbe nel Caucaso e per l’impatto terribile che ha avuto fino ad oggi. Una cosa era chiara, in quei giorni del settembre 1991: nessuno aveva una ricetta per fronteggiare la dissoluzione di un impero, qual era quello dell’Unione Sovietica.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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