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ARMENIA: Viaggio nella Cuba del Caucaso

Nel villaggio di Lernamerdz, in Armenia, un mezzobusto di Lenin domina la “Cuba rossa”, dove sopravvivono le ultime tracce di socialismo della regione

“Vicino alle montagne”: questo è il significato della parola Lernamerdz. La più imponente è l’Aragats che lascia il posto all’Ararat man mano che ci si avvicina al villaggio. Situato nella regione di Armavir, il paesino, che ad oggi conta 400 anime, è stato fondato nel 1924, in seguito alla fuga dall’ennesima violenza perpetuata dall’impero ottomano nei confronti degli armeni e yazidi. Tra strade che non hanno mai conosciuto il cemento e Lada di diverse annate, mi ritrovo davanti ad una statua di Lenin su un piedistallo. Occhi e naso sfigurati non fanno altro che aumentare la mia curiosità, ma già so dove trovare le risposte a (quasi) tutte le mie domande. Cerco la casa di Azat Barseghyan, il protagonista di questa storia; non cosa difficile, dato che quest’ultimo vive proprio davanti al busto.

Ad accogliermi è suo figlio e i nipoti, mentre Azat, ormai anziano, è su un lettino nella cucina dopo una difficile operazione, ma ciò non lo ferma da salutarmi con un caloroso Barev dzez (“Salve” in lingua armena). Azat ha sempre vissuto a Lernamerdz e, accortosi dell’assenza di un monumento di Stalin o Lenin, presente invece in tutti gli altri villaggi dell’Armenia, ha deciso di ‘prenderne’ uno dalla vicina Echmiadzin. Insomma, un furtarello, che però lui giustifica come puro gesto di giustizia.

La statua, così, viene prelevata dalla casa della Cultura e, nel trasporto, cade accidentalmente, causando i danni che ho notato all’arrivo. Interessante è l’anno in cui Lenin è giuto lì: il 1996. Erano ormai passati diversi anni dal crollo dell’Unione sovietica e la corsa per cancellare, o quantomeno nascondere, le tracce del comunismo avanzava inesorabilmente al di qua della cortina di ferro. “Un qualcosa per chi ha davvero creduto e ancora crede  in quegli ideali. Così da poterli esprimere liberamente, senza le costrizioni del regime’ mi spiega uno dei nipoti di Azat, facendomi capire il perché di quel gesto alla fine degli anni novanta. All’inaugurazione del monumento sono accorsi un centinaio di persone, tra le quali spicca l’allora segretario generale del partito comunista armeno. In effetti, la maggior parte degli abitanti di Lernamerdz era iscritto al partito comunista, alimentando ancor di più l’accostamento con Cuba. Oggi i tempi son cambiati e il partito ha pochi ammiratori tra le file degli abitanti.

Dopo fiumi di Lavash, il pane locale, e quantità smisurate di carne alla brace, uno dei nipoti mi mostra l’orgoglio di famiglia: il книга почета (kniga pocheta, il libro d’onore). Il volume, con copertina rosso scuro e l’immancabile falce e martello, raccoglie le firme di chi ha visitato Lernamerdz, le fotografie e ritagli di quotidiani che hanno raccontato la storia di Azat. Mi mostrano con orgoglio le immagini del presidente di Ciprio che maneggia i ferri per il barbecue, una corrispondente francese e anche qualche dedica lasciata da viaggiatori italiani. Ma le pagine scritte son tante. C’è spazio anche per la mia di dedica, ma non avendo una fotografia a disposizione, gli prometto solo che un giorno tornerò per allegarla al libro, e così dicendo, lascio solo un augurio di pronta guarigione ad Azat.

Al calar del sole, arriva il momento della foto di gruppo e, salutando la famiglia, Azat, con grande fatica, tenta di vendermi un piccolo busto di Stalin di marmo italiano. Prezzo sproporzionato e, tra una risata e l’altra, rifiuto con gentilezza l’offerta del padrone di casa. Sulla strada per Yerevan, mi soffermo a pensare a cosa accadrà a tutti quei cimeli di un tempo che non ci appartiene più, ma forse questa è l’unica domanda a cui non ho trovato ancora nessuna risposta.

Foto: Francesco Pio Di Martino/ East Journal

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