dottrina Putin

L’Ucraina e la dottrina Putin, un punto sensibilissimo dell’Europa post-sovietica

Partendo dalla dissoluzione dell’URSS fino alla dottrina Putin, l’Ucraina raccontata in un intreccio di Storia e memoria da parte di un diplomatico che era presente all’epoca dei fatti…

La dissoluzione dell’URSS non fu così incruenta

Trent’anni fa, quando la bandiera rossa con la falce e martello fu ammainata al Cremlino, e le quindici repubbliche di quella che era ormai la “ex” Unione Sovietica dichiararono la loro indipendenza, tutti tirarono un sospiro di sollievo per la scomparsa in maniera quasi incruenta dell’impero sovietico. Non fu proprio così, e basti qui solo menzionare il conflitto del Nagorno-Karabakh, tra Armenia e Azerbajgian; la Transnistria in Moldavia, le regioni autonome dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud in Georgia, per indicare aree di crisi che ancora persistono e che spesso si incendiano. Per non parlare della Cecenia, repubblica russa che aveva resistito all’invasione zarista per tutto il secolo diciannovesimo e aveva terribilmente sofferto nel periodo sovietici, il cui anelito d’indipendenza fu represso brutalmente in due guerre a cavallo del millennio, la seconda con il marchio indelebile di Putin che fece radere al suolo la capitale Grozny dopo aver preso il potere.

L’Ucraina, un punto sensibilissimo

Un punto sensibilissimo è sempre stata l’Ucraina. Al momento dell’indipendenza nel 1991, essa spiccava per varie particolarità. Sebbene fosse esistita come stato indipendente nei tempi moderni solo per pochi anni, aveva un potente movimento nazionale, una vivace tradizione letteraria e un forte ricordo del suo status sovrano nella storia dell’Europa prima di Pietro il Grande, e non solo. Aveva una popolazione che all’epoca, nel 1991, toccava 50 milioni di abitanti, seconda solo alla Russia tra gli stati post-sovietici. Strategicamente situata sul Mar Nero, possedeva il più grande porto navale in acque calde dell’URSS, a Sebastopoli.

Aveva sofferto molto durante l’avanzata tedesca nell’Unione Sovietica nel 1941: delle tredici “città eroiche” dell’URSS, quattro erano in Ucraina (Kiev, Odessa, Kharkiv e Sebastopoli) ma cominciava a uscire dal buio della memoria il ricordo di un altro evento chiave nella storia ucraina, vale a dire l’Holodomor, lo sterminio per fame, causato (e pianificato) da Stalin e compagni tra il 1931 e il 1935 che portò alla morte per inedia di cinque milioni di persone, le famiglie dei cosiddetti kulaki, piccoli proprietari ucraini che non accettarono la collettivizzazione delle terre e dei prodotti.

Le economie di Russia e Ucraina erano profondamente intrecciate culturalmente e storicamente. Le lingue russa e ucraina sono diverse e distinte, ma sono lingue slave molto affini. Tra l’altro, la maggior parte delle persone le conosceva entrambe: era una nazione genuinamente bilingue, una cosa rara. Nessun luogo come l’Ucraina ha avuto un ruolo così centrale nell’immaginario storico nazionalista russo adottato e fatto proprio poi dal sistema putiniano. Per i primi vent’anni di indipendenza, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina interferendo in vari modi, mai in maniera troppo diretta e soprattutto armata. Accadeva quel che sembrava bene accadesse per Mosca: la numerosa popolazione russofona dell’Ucraina garantiva, o sembrava farlo, che il paese non si allontanasse troppo dalla sfera di influenza russa, e tanto bastava a Boris Eltsin e anche al Putin dei primi anni.

Quel giorno a Monaco e dopo…

Faceva freddo a Monaco di Baviera, nel pomeriggio dell’11 febbraio 2007, alla Conferenza internazionale sulla sicurezza (evento molto importante alla quale partecipa in genere il gotha politico-diplomatico internazionale) quando avvenne il punto di svolta nelle relazioni tra Russia e Occidente. Io c’ero quel giorno a Monaco, avevo accompagnato Javier Solana perché a margine erano previsti colloqui sul Kosovo di cui mi occupavo al servizio dell’UE, la sala era riscaldata alla tedesca, cioè in maniera eccessiva, ma durante il discorso di Putin il sangue mi si gelò completamente Nel suo durissimo ed esplicito intervento, Putin lanciò quella che è da allora conosciuta come la dottrina Putin: attaccò gli Stati Uniti e il sistema unipolare da loro imposto, ma anche l’UE che ne era diventata un “esecutore” ed espresse il completo rifiuto di tutto il sistema di sicurezza e cooperazione messo in piedi nel continente europeo a partire dalla fine dell’era dei blocchi.

Menzionò l’inserimento in tale sistema della Georgia, dell’Ucraina (e, per inciso, anche della Moldavia) come situazioni per Mosca inaccettabili aggiungendo che quest’ultima avrebbe fatto di tutto per sovvertire tale quadro. Quello non era un discorso, ma un avvertimento quasi con la pistola puntata: quella sera in tanti lanciammo l’allarme, ma quei messaggi, se mai ascoltati, non furono certo compresi fino in fondo né seguiti.

Nell’aprile 2008, a Bucarest, i paesi della NATO respinsero la richiesta di adesione di Georgia e Ucraina pur lasciando la porta aperta, vale a dire promettendo che Georgia e Ucraina “sarebbero un giorno potuti diventare membri della NATO”. Questa formula è nota come il compromesso Merkel, ma non fu certo solo lei a favorirlo, anche se la Cancelliera fu determinata a ottenerlo. Si trattava però di una vaga promessa di adesione senza nessun beneficio effettivo, sotto forma di vere garanzie di sicurezza, che solo l’adesione o anche una cooperazione rafforzata ma immediata avrebbe comportato. “Vedrai che in un paio di anni i carri armati russi ce li troviamo alle porte di Tbilisi…” disse una mia amica georgiana tra le lacrime.

Altro che anni, passarono pochi mesi e con quella che, fino a quel momento, era stata l’azione militare di gran lunga più significativa fuori dai suoi confini, la Russia sconfisse la Georgia in una guerra di cinque giorni sancendo militarmente la secessione di Abcasia e Ossezia del sud: a Tbilisi i carri russi non ci arrivarono solo per l’intervento in extremis di Sarkozy e della Merkel, che fu definito l’ennesimo e miracoloso salvataggio della pace. Lo fu certo, ma in realtà ciò poneva un triste precedente, vale a dire l’accettazione del fatto compiuto, che vedremo ripetersi sei anni dopo con l’acquiescenza all’annessione russa della Crimea e con l’incapacità di frenare in maniera efficace e permanente la guerra prima ad alta poi a bassa intensità nel Donbass. Gli accordi di Minsk (I e II), negoziati con il cosiddetto “formato Normandia” erano solo delle tregue e non venne definito un vero meccanismo di intervento internazionale, ma solo di osservazione. Si capiva dall’inizio che non avrebbero funzionato, così come si capiva che non solo le parti ma anche i negoziatori e i garanti volevano solo congelare il conflitto, non risolverlo. E questo assunto purtroppo non funziona mai, come la Storia ha più volte dimostrato. Il risultato ce l’abbiamo davanti agli occhi. Basterà a non commettere gli stessi errori in futuro?

 

Chi è MIchael L. Giffoni

Michael L. Giffoni (New York, 1965), da diplomatico di carriera dal 1992 al 2014 ha ricoperto numerosi e delicati incarichi nazionali ed europei. Dopo aver trascorso gli anni ’90 in Bosnia e nel resto dell’ex-Jugoslavia in guerra, è stato Capo della Task-force per i Balcani dell’Alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana, poi per 5 anni primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo (2008-2013) ed infine (2013-14) Capo Ufficio per il Nord Africa e la Transizione araba al Ministero degli Affari esteri.

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