Transnistria

La Transnistria, arma di disturbo russa. Cosa c’è da temere?

Esplosioni in Transnistria

Lo scorso 25 aprile la Transnistria è salita nuovamente agli onori delle cronache internazionali a causa di alcuni episodi dalla matrice ambigua. Esplosioni sono state registrate presso la sede del ministero per la Sicurezza nazionale a Tiraspol, capitale dell’autoproclamata repubblica; ad esse sono seguite nuove detonazioni presso stazioni radiofoniche in altri territori del paese. Non sono state accertate vittime; al momento dell’attacco il ministero era vuoto, così come gli altri bersagli.

Chi è stato?

Immediatamente sono partite le speculazioni sulle responsabilità. La Moldavia, cui formalmente la Transnistria appartiene, non ha lanciato accuse precise, sebbene abbia palesato i suoi sospetti. Il presidente della Repubblica, Maia Sandu, ha dichiarato che le tensioni nascerebbero “dall’interno della regione”, generate da “forze favorevoli alla guerra”. Il viceministro dell’interno Sergiu Diaconu, in un’intervista al New York Times ripresa da vari media internazionali, ha detto che le granate usate contro il ministero sono in dotazione soltanto alle truppe russe, all’esercito della Transnistria e a quello del Gabon. Ha chiosato poi ironicamente esprimendo i suoi profondi dubbi sulla matrice gabonese dell’attentato.

Solo tre giorni prima il comandante del Distretto Militare Centrale russo, Rustam Minnekaev, aveva ammesso come uno degli obiettivi del Cremlino fosse conquistare l’Ucraina meridionale per creare un corridoio terrestre che collegasse la Federazione non solo alla Crimea, ma anche alla Transnistria, dove sarebbero stati accertati episodi di discriminazione e odio contro la locale popolazione russofona. Un copione già visto, che però regge a fatica la prova dei fatti.

Transnistria, dal 1924 arma di disturbo russa

L’uso delle terre al di là del fiume Dnestr come strumento di disturbo e provocazione non è un’invenzione putiniana, né tantomeno un fenomeno post-sovietico. Nel 1924 il governo comunista di Mosca creò in una zona corrispondente in parte alle attuali Transnistria e Ucraina meridionale una repubblica autonoma, denominata Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Moldava (RASSM). Per i primi cinque anni la capitale fu Balta; solo dal 1929 tale rango venne assegnato a Tiraspol. Attraverso la RASSM, Mosca mirava a destabilizzare la vita politica della vicina Bessarabia (l’attuale Moldavia), che dal 1918 era entrata a far parte del regno di Romania. Da Tiraspol partivano spesso gruppi di sabotatori e terroristi comunisti che andavano a compiere attentati in Romania, e nella RASSM molti comunisti romeni andavano a rifugiarsi dopo essersi macchiati di reati penali. Tiraspol divenne uno degli incubi più ricorrenti delle autorità di Bucarest, che temevano che da lì potesse partire una futura annessione sovietica della Bessarabia. Guarda caso, lo stesso timore provato oggi da molti moldavi.

Dalla Seconda guerra mondiale al 1991

La Transnistria venne sempre vista da Bucarest come un corpo estraneo, pericoloso, avulso dal resto della nazione. Le truppe romene alleate della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale occuparono la regione nella loro avanzata verso il cuore dell’Unione Sovietica nel 1941, trasformandola in uno scenario di orrori. Lì vennero deportati tutti i rom catturati in Romania, che proprio a Tiraspol e dintorni trovarono la morte. Dopo la seconda guerra mondiale la Transnistria tornò sotto il controllo sovietico, questa volta unita alla vecchia Bessarabia.

La secessione della Transnistria

La Repubblica Socialista Sovietica Moldava sopravvisse fino all’agosto del 1991, quando a Chisinau venne proclamata l’indipendenza. Poco dopo Tiraspol dichiarò unilateralmente la secessione, dando inizio ad una sanguinosa guerra che di fatto ha sancito lo status quo. La Trasnistria, pur appartenendo formalmente alla Moldavia, è de facto indipendente, anche se non riconosciuta dalla comunità internazionale. Da quel momento Mosca sostiene la Transnistria attraverso forniture gratuite di materie prime e continui prestiti, usati soprattutto per pagare le pensioni.

Gli abitanti della sedicente repubblica sono circa 450.000, e la maggior parte ha nel russo la propria lingua madre. Al contrario di quanto afferma Minnekaev, non sono i russi a patire discriminazioni, bensì i romenofoni. Già nel 1994 il governo di Tiraspol bandì l’uso dell’alfabeto latino nelle scuole, costringendo i bambini ad usare il cirillico anche per scrivere in romeno. Secondo quanto riportato da Deutsche Welle, più del 90% delle scuole e delle università nella regione impartiscono gli insegnamenti esclusivamente in lingua russa.

Ma la Transnistria è davvero un obiettivo?

Questa è la domanda che giornalisti e analisti si stanno ponendo da giorni. Qual è il ruolo della Transnistria nell’attuale scenario bellico? Ha realmente un’importanza decisiva per l’attacco all’Ucraina meridionale?

Gli analisti sembrano concordare su un punto: la Transnistria non rappresenta una pedina decisiva nell’attuale scacchiere. Da un punto di vista militare, l’esercito della sedicente Repubblica difficilmente può costituire un aiuto significativo alla Russia. Sebbene non si conosca esattamente la sua consistenza numerica, è noto lo scarso livello di addestramento e, soprattutto, la fatiscenza degli equipaggiamenti.

Molto si è discusso delle milizie russe ivi stanziate. Secondo quanto riporta Radio Europa Libera i soldati russi in Transnistria sono circa duemila. Il loro compito principale è la difesa della base di Cobasna, dove si trova un enorme deposito di armi e munizioni cui soltanto i soldati russi e le autorità di Tiraspol possono accedere. Al suo interno vi sono conservati equipaggiamenti diversi, la maggior parte dei quali risalenti all’epoca sovietica; tuttavia, a detta dell’ex ministro della Difesa moldavo Anatol Salaru, quasi tutte le armi di Cobasna, oltre ad essere troppo vecchie, non funzionano.

I duemila soldati presenti in Transnistria non bastano per attaccare Odessa. Per trasformare la Transnistria in un reale avamposto per l’eventuale attacco sulla città portuale Mosca dovrebbe dislocarne altri, ma organizzare tale spostamento allo stato attuale risulta estremamente complesso. Secondo Anton Barbashin, esperto di politica russa intervistato dal Washington Post, mandare ulteriori truppe in Transnistria causerebbe più svantaggi che benefici; provocherebbe ulteriori sanzioni e distruggerebbe le relazioni con la Moldavia, che ha già dichiarato più volte di non aver intenzione di entrare nella NATO.

Una testa di ponte per invadere la Moldavia?

Anche questo sembra difficile. Bisogna infatti tener presente che il Cremlino possiede già degli strumenti che gli permettono di esercitare una notevole influenza sulla Moldavia senza bisogno di invaderla militarmente. A differenza dell’Ucraina, i partiti cosiddetti filorussi, sebbene indeboliti, sono ancora centrali nella scena politica. Inoltre, Chisinau è totalmente dipendente da Mosca non solo per quel che riguarda le forniture di gas, ma anche per la produzione di energia elettrica.

La società statale moldava che si occupa delle forniture di gas, Moldovagaz, appartiene a Gazprom, che ha inserito dei suoi rappresentanti nel consiglio di amministrazione. A ciò si aggiunga che l’energia elettrica necessaria a soddisfare il fabbisogno moldavo viene prodotta dalla centrale di Cuciurgan, che si trova in Transnistria, e funziona grazie al gas russo. Non è esagerato dire che gli interruttori che avviano i riscaldamenti e l’illuminazione moldava si trovano in Russia. Perché impegnare soldati e risorse, attualmente fondamentali nel più caldo scenario ucraino, per occupare un paese che può essere enormemente danneggiato in altro modo?

Alla luce di quanto riportato non sembra che la Transnistria e la Moldavia possano rappresentare obiettivi concreti per le alte gerarchie politico-militari del Cremlino. Tuttavia, questa guerra ha confermato come il concetto di convenienza strategica e geopolitica occidentale non corrisponda necessariamente a quello russo. Al contrario, spesso Mosca ha conferito un valore importante agli atti simbolici e alle aperte provocazioni. Inoltre, in uno scenario bellico fluido come quello attuale, la situazione può cambiare velocemente, mutando priorità e obiettivi nel giro di poche ore. Di conseguenza, allo stato attuale, lanciarsi in previsioni, oltre che ardito, appare del tutto inutile.

articolo scritto in collaborazione con Osservatorio Balcani e Caucaso

Immagine su Licenza Creative Commons via Flickr

Chi è Francesco Magno

Ha conseguito un dottorato di ricerca in storia dell'Europa orientale presso l'università di Trento. E' stato assegnista di ricerca presso la medesima università. Attualmente insegna storia dell'Europa orientale presso l'università di Messina. Si occupa principalmente di storia del sud-est europeo, con un focus specifico su Romania, Moldavia e Bulgaria.

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