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RUSSIA: “È una guerra civile, senza sangue”. Come le proteste spaccano la società

La gente è divisa. La guerra ha spaccato comunità, allontanato persone, separato famiglie. Si scontrano genitori e figli. È una guerra civile. Senza sangue, per ora”. Ecco come le proteste stanno spaccando la società russa…

Le proteste

Io e Alisa – nome fittizio per proteggere la sua identità – non ci sentiamo telefonicamente, e nemmeno ci scriviamo su Whatsapp. Nessuna precauzione è mai eccessiva, specie oggi, in Russia. Le ultime misure varate dal governo impediscono anche la minima forma di protesta, infliggendo multe e, nel peggiore dei casi, giorni, se non mesi o anni di carcere.

San Pietroburgo, dove Alisa vive, è stata teatro delle più vibranti proteste dall’inizio del conflitto. “La gente camminava nel centro della città con i manifesti, scandendo cori contro la guerra. Che fosse “Stop alla guerra”, “Stop Putin” o “Pace nel mondo” non faceva differenza alle forze dell’ordine. Li hanno fermati tutti, anche se sul cartellone non era scritto nulla, anche se erano fogli bianchi.”

Alisa insegna musica. Proprio a professori ed insegnanti è riservato un trattamento particolarmente duro: “In carcere no, non li portano sempre, ma li possono trattenere ugualmente qualche giorno. E può finire altrettanto male, anche senza carcere: studenti fermati, lavoratori licenziati…”.

“Girano anche voci di una novità nella legislazione: il reato di alto tradimento con la reintroduzione della pena capitale”. Solo voci, per ora. La Duma non ha ancora deliberato in merito, ma la decisione presa a metà marzo di uscire dal Consiglio d’Europa (e quindi dalla CEDU, Convenzione europea dei diritti dell’uomo), non fa presagire niente di buono. “Mi viene in mente il 1937” – anno delle grandi purghe staliniste.

La domanda sorge spontanea: la voce di Alisa è la voce dell’intera popolazione? o solo quella di una minoranza istruita, mediamente giovane, residente nelle città? Quanto le sue parole rispecchiano il pensiero dei suoi amici, colleghi, compagni?

Le immagini dello stadio Luzhniki gremito hanno fatto il giro del mondo. Immagini gonfiate dalla propaganda, certo. Ma quante persone sostengono oggi le azioni dell’autocrate russo? Pensare alla popolazione russa come ad un popolo completamente soggiogato alle idee del suo leader è forse tanto sbagliato quanto pensare che tutti i russi approvino l’invasione dell’Ucraina. Certo la censura esiste, e non si può ignorare. Ma bisogna tenere conto anche del sostegno che venti anni di politica di Putin hanno plasmato.

“Non c’è consenso” mi dice Alisa. “La gente è divisa. Non c’è unità di pensiero nemmeno in famiglia, tra padri e figli, tra coniugi. È una guerra civile, per il momento senza sangue.”

L’informazione

La questione dell’informazione è diventata il principale argomento di discussione degli ultimi mesi. Il grado di reperibilità di informazioni super partes, oggettive, critiche ed indipendenti è uno strumento per misurare l’accesso all’informazione nel paese, essenziale per una democrazia sana. E per quanto negli ultimi anni – complici la diffusione di internet, la globalizzazione, i social – l’accesso alla stampa “libera” sia esponenzialmente aumentato, il governo della Federazione Russa si è ben guardato dal rendere i suoi canali d’informazione indipendenti.

“Io e mio marito non abbiamo la televisione da anni, ci informiamo attraverso la rete: Google, Facebook, ma anche alcune agenzie di stampa russe e alcuni canali come Echo Moskvy” – di cui maggiore azionista era Gazprom-Media, gigantesca holding mediatica nata da Gazprom e fortemente legata al governo. “Nell’ultimo mese il governo ha fatto chiudere tutto, ed è rimasta soltanto la Tv nazionale. In molti la guardano e credono alle notizie che diffonde. “Perché credere a qualsiasi fonte d’informazione tranne la Tv nazionale? Che garanzie hai che non siano gli altri a mentire?”, mi ha chiesto di recente una collega. Credo che la maggior parte della gente la pensi come lei”.

Parliamo anche del presente, della realtà di ogni giorno, che tenta di sfuggire alla dimensione totalizzante del conflitto. “La vita sembra la stessa ma non lo è. Pensiamo solo alla guerra, parliamo di guerra, leggiamo notizie sulla guerra. Tante personalità del mondo della cultura se ne sono andate: giornalisti, artisti, specialisti e scienziati. Si avverte un senso pericolo tanto diffuso quanto vago. Non ci sono rastrellamenti o arresti a tappeto, ma il pericolo si sente. Parlare con i genitori e con alcuni amici è diventato difficile. La società è profondamente spaccata in due.” Forse per questo senso di divisione radicale parlare di guerra civile non è esagerato.

Presente e futuro

Anche girare per le strade è cambiato: “Sai, queste non sono le cose più importanti, è ovvio – dice Alisa – ma si fanno sentire. Nei primi giorni di conflitto hanno cambiato tutti gli annunci dei concerti: gli artisti occidentali non si esibiranno più. Poi i marchi più famosi hanno chiuso i loro negozi; i centri commerciali sono quasi abbandonati. Facebook e Messenger hanno smesso di funzionare, poi le notizie di Google e i canali d’informazione di cui ci fidavamo di più. E poi angoscia, ogni sera e ogni mattina prima di guardare le notizie, lacrime ogni giorno e senso d’impotenza. Infine la paura di non poter rivedere nostra figlia, che vive all’estero, per un anno ancora, forse di più.”

Parliamo anche di futuro. Comunque finirà, ci sarà molto da sistemare.

“Certamente. Ma la domanda è: chi sarà risanare le fratture di questa “guerra civile”? Se saranno le persone con i manifesti che inneggiano alla pace, allora ci sarà pace in tutto il mondo. Ma altrimenti? Non voglio pensarci”.

Immagine da Pixabay

Chi è Davide Cavallini

Laureando in Storia. Cuore diviso tra la provincia est di Milano e l'Est Europa. Dopo svariati viaggi in Romania tra turismo e volontariato incomincia a scrivere per East Journal. Appassionato di movimenti giovanili, politiche migratorie e ambientali.

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