vai a farti fottere

“Nave russa vai a farti fottere”, storia della frase simbolo della resistenza ucraina

“Nave russa vai a farti fottere” è una frase simbolo della resistenza ucraina. Alessandro Ajres risale alle radici antiche di queste parole e analizza la potenza degli slogan in guerra…

Trascorsi circa quaranta giorni dallo scoppio di questa terribile guerra tra Russia e Ucraina, ci sono già alcuni segni, simboli e miti che – complice la diffusione delle immagini e informazioni che riceviamo – si sono attestati saldamente nell’immaginario collettivo.

L’Isola dei serpenti

Al pari della Z sui carri-armati russi, anche la storia del contingente ucraino sull’Isola dei serpenti risale all’inizio delle ostilità; data la sua forma collegata a uno dei miti più noti sulla guerra, anzi, possiamo dire che in qualche modo abbia aperto le ostilità. Come si ricorderà, pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa una nave dell’esercito di Putin intimò alla guarnigione ucraina (13 soldati) di stanza sull’Isola di arrendersi, pena l’immediato bombardamento. Gli ucraini risposero, in un audio registrato e ampiamente diffuso: “Nave da guerra russa, vai a farti fottere!”. Russkij vojennyj korabl, idi na chuj! I russi aprirono il fuoco e, sulle prime, circolò la versione che i soldati ucraini fossero deceduti in quell’attacco. In realtà, si è scoperto successivamente, gli ucraini erano stati fatti prigionieri e poi liberati in uno scambio con 11 prigionieri russi.

Qualche giorno fa, Roman Hrybov, l’autore della risposta alla nave russa, è stato decorato per il proprio coraggio, a dimostrazione di quanto l’episodio si sia ammantato di eroismo a prescindere dall’esito finale. Anzi, col senno di poi è divenuto il simbolo del popolo ucraino che continua a lottare malgrado un destino segnato, o almeno così dicevano tutti gli esperti di questioni belliche.

Il mito delle Termopili

In tal senso, per chi sia imbevuto di cultura mediterranea, il collegamento col mito delle Termopili è scattato in maniera automatica, consapevole o meno. Anche i trecento di Leonida combatterono dapprima contro 2,6 milioni di persiani (Erodoto) poi ridotti a 150.000 dalle fonti più recenti; ma a nessuno importa della realtà storica, travalicata dal mito.

Il mito non coincide mai con la definizione di verità o falsità; i miti sono storie da interpretarsi quali istruzioni per l’uso nella realtà. Danno senso alla nostra vita; permettono di sincronizzare gli sforzi degli individui in un’azione comune. I miti non vincono le guerre ma, avendoceli “contro”, rendono impossibile vincerle. La battaglia delle Termopili è divenuta esempio dei risultati militari straordinari che si possono raggiungere tramite un esercito motivato, che si batte in difesa della propria patria, anche contro forze decisamente soverchianti; l’episodio dell’Isola dei serpenti, ricollegandosi a questo mito, è ciò di cui l’Ucraina aveva bisogno in quel preciso momento. Il governo ucraino ha persino predisposto un concorso sul tema, invitando gli artisti del Paese a ideare un disegno da cui ricavare un francobollo: nel progetto vincente di Boris Groh, dal titolo: Russian warship, go fuck yourself!, si vede un soldato ucraino di spalle che – sugli scogli dell’Isola – solleva il dito medio in direzione della nave russa.

Reminiscenze cosacche

La mancanza di qualsiasi riguardo anche per un nemico molto più potente, d’altro canto, è tipicamente cosacca: Idi na chuj (Vai a farti fottere) potrebbe rappresentare la versione abbreviata della leggendaria lettera al sultano Mehmed IV di Turchia scritta dai cosacchi dello Zaporož’e negli anni Settanta del XVII secolo (1676 ca.).

All’epoca i cosacchi ricevettero, appunto, una lettera da parte del sultano Mehmed IV, che li minacciava di annientarli se non si fossero arresi incondizionatamente. Paradossalmente, tuttavia, i cosacchi avevano appena sconfitto il Sultano in battaglia; dunque la loro risposta risultò quanto mai sfrontata, pur ricalcando lo stile ampolloso della lettera del Sultano: “A te, diavolo turco, maledetto amico e fratello del demonio, servitore di Lucifero stesso. Che cazzo di cavaliere sei, tu che non riesci ad uccidere un riccio col tuo culo nudo? Il Demonio caca, e il tuo esercito si mangia la sua merda. Non avrai mai, figlio di puttana, dei cristiani ai tuoi ordini; non temiamo il tuo esercito e per terra e per mare continueremo a combatterti, si fotta tua madre.(…) Puoi baciarci il culo!”, riporta la traduzione, poco edulcorata, di un sito specializzato.

I cosacchi erano guidati da Ivan Sirko, che si trova al centro del maestoso quadro (203×358 cm., attualmente al Museo di stato russo a San Pietroburgo) di Il’ja Repin ispirato all’episodio e dipinto tra 1880-1891. Il titolo dell’opera è, appunto, I cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al Sultano di Turchia. Il dipinto coglie anzitutto il divertimento dei cosacchi mentre si sbizzarriscono negli insulti nei confronti del Sultano.

Il rapper russo

Nel 2015, l’episodio è stato rievocato dal rapper russo (di origine cosacca) Iliya nella traccia Lettera al sultano, in occasione dell’abbattimento di un bombardiere russo da parte di un jet turco in cui era deceduto un soldato russo (a propria volta di origine cosacca). La cornice era quella della guerra in Siria. Nella prima strofa della canzone si riporta la lettera del Sultano, che si definisce “lo zar degli zar” e obbliga i cosacchi all’obbedienza; nella seconda è contenuta, invece, la risposta dei cosacchi, che definiscono il Sultano come Satana (o demone) e segretario di Lucifero, promettendogli che non governerà mai su di loro.

Westerplatte e Mickiewciz, tra realtà e mito

In Polonia, l’episodio dell’Isola dei serpenti ha richiamato alla memoria quello della Westerplatte, ovvero la strenua resistenza dei soldati polacchi (1-7 settembre 1939) all’attacco sferrato dai tedeschi in apertura della Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, le forze in campo erano notevolmente sbilanciate in favore dell’aggressore (200 polacchi vs 4.000 tedeschi ca.).

Altrove si è risaliti fino al testo del poeta romantico Adam Mickiewciz (Reduta Ordona, 1832) in cui si descrive la difesa di Varsavia al cospetto dei russi nel settembre 1831. A capo della squadra di artiglieri che difendeva la ridotta c’era Julian Ordon, da cui il nome dato all’opera (Ridotta di Ordon, in italiano). Nella versione di Mickiewicz, Ordon, non volendo consegnare armi e munizioni al nemico, si fa saltare per aria insieme alla propria truppa. In realtà Ordon sopravvisse all’episodio e, addirittura, ebbe modo di incontrare più avanti negli anni Mickiewicz stesso. Le discussioni sulla veridicità storica, dunque, iniziarono immediatamente dopo la stesura del poema, così come tuttora restano vivaci intorno all’evento della battaglia della Westerplatte. Poco importa se i soldati impegnati davvero morirono durante quegli scontri, o se tali avvenimenti siano stati effettivamente eroici in ogni loro sfaccettatura; assai più conta il modo con cui, ad essi, si rivolgono le popolazioni in cerca di un mito cui aggrapparsi.

Idi na chuj

D’altro canto, la frase: Idi na chuj si è diffusa a macchia d’olio, in Ucraina, Polonia e non soltanto. Qualcuno ha fatto notare che si tratta del chuj (cazzo) più grande mostrato a Putin dal 2010, quando un collettivo di artisti disegnò su un ponte mobile di San Pietroburgo un membro lungo 65 metri e largo 27, che si erigeva col sollevamento del ponte. L’azione si intitolava In culo alla schiavitù dell’FSB (FSB è la sigla che ha sostituito quella, famigerata, del KGB) e fu realizzata proprio sul ponte di fronte alla sede dell’istituto di sicurezza che fu quello di Putin.

Idi na chuj, attualmente, si può leggere su enormi tabelloni lungo le strade di Odessa; questa frase è entrata nei testi di canzoni famose rimodulate appositamente (Soldat del gruppo ucraino 5’nizza, Pa2ałsta del rapper polacco Tede, Idi del gruppo punk polacco Dezerter, in cui si canta: “Dittatore del botox/Il mondo non è tuo/ vai a fare in culo!”); sui cartelli esposti in tutto il mondo risalta anche la versione inglese: Russian warship go fuck yourself!

I motivi del successo di questo motto, che sussiste ormai separatamente dall’episodio che lo ha scaturito, sono molteplici: anzitutto l’astio comune nei confronti di Putin, quindi il fatto che sia stato pronunciato in russo da un ucraino, a mo’ di beffa, certo, ma anche come dimostrazione dell’intercambiabilità delle lingue presso gli ucraini, infine perché riunisce idealmente quel che Putin sta tentando di dividere: la vicinanza tra popoli di origine slava. Nei commenti alle canzoni citate si leggono opinioni di polacchi che rispondono a cechi che rispondono a ucraini che rispondono a russi… Idi na chuj si sta trasformando nella patria di approdo degli slavi anti-Putin.

Putin testa di cazzo

A partire dal 2014 Putin chuilo (Putin testa di cazzo) è diventato uno slogan diffuso in Ucraina, Bielorussia e Russia, desunto da una canzone dei tifosi del Metalist di Kharkiv. L’origine del coro proviene da un’ingiuria precedente rivolta al presidente della Federcalcio ucraina, Hrykoriy Surkis, con cui i tifosi del Metalist avevano un “conto” aperto: Surkis chuilo. Dopo i fatti del 2014, e l’invasione russa dell’Ucraina orientale, la canzone prese Putin come obiettivo. Secondo il “Guardian” il coro è divenuto un nationwide cultural meme. Se si vuole esprimere la propria idea su Putin, è sufficiente canticchiare la-la-la-la-la-la-la-la del ritornello e tutto risulta esplicito. In uno degli episodi di Servant of the people già mandati in onda dalla televisione italiana, al personaggio interpretato da Zelensky – chiamato a scegliere un orologio degno di un presidente – viene detto che Putin porta al polso un orologio Hublot. Al che, il futuro presidente Zelensky ribadisce: Putin chublo? La scena è stata tagliata in gran parte della Russia.

Foto di Danilo Elia, precedentemente pubblicata su Osservatorio Balcani e Caucaso

 

 

Chi è Alessandro Ajres

Alessandro Ajres (1974) si è laureato all’Università di Torino con una tesi su Gustaw Herling-Grudziński, specializzandosi nello studio della lingua e letteratura polacca. Nel 2004 ha conseguito il dottorato di ricerca in Slavistica con un lavoro sull’Avanguardia di Cracovia, da cui scaturirà poi il volume Avanguardie in movimento. Polonia 1917-1923 (Libria 2013). Attualmente è professore a contratto di Lingua Polacca all’Università di Torino.

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