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KAZAKHSTAN: Non è una rivoluzione colorata

Quella in corso in Kazakhstan non è una rivoluzione colorata, malgrado molta stampa – specialmente nazionale – si ostini a descriverla così …

I violenti scontri che da giorni infiammano il Kazakhstan vengono interpretati da più parti come una “rivoluzione colorata“, ovvero come un’espressione dell’ingerenza americana e occidentale nella vita politica del paese centro-asiatico. Si tratta di una chiave di lettura facilona, ideologica, e un tantino coloniale, basata su un approccio cospirativo alla politica internazionale. Un approccio fatto di complotti, di trame ordite dietro le quinte, con modelli interpretativi da guerra fredda. Modelli facili da capire, un po’ cinematografici, suggestivi quanto banalotti, secondo cui tutto è riducibile allo scontro tra superpotenze impegnate nella lotta per il dominio.

Questo tipo di spiegazioni non tiene conto delle dinamiche interne. Tutte le cause della crisi sarebbero da ricercarsi all’esterno, e le proteste non sarebbero altro che manifestazioni pilotate a cui gente sempliciotta partecipa senza rendersi conto di essere solo marionette in mano a forze più grandi di loro. D’altronde solo a noi occidentali è dato di capire il mondo, noi che ne abbiamo viste tante, noi che sappiamo come vanno le cose mentre questi altri, poverini, gli ucraini, i georgiani, i bielorussi, senza contare quegli asiatici là, così lontani dalla civiltà, sono politicamente dei fessacchiotti. A loro non è concesso di auto-determinarsi.

Una rivolta operaia e spontanea

Quello che sappiamo finora ci restituisce una realtà ben diversa. Le proteste in Kazakhstan sono scoppiate a causa di un raddoppio del prezzo del gas. E sono scoppiate a a Zhanaozen, nella regione occidentale del Mangystau, sul Caspio. Una città di circa 150mila abitanti, la cui economia è fondata sul settore energetico, che già nel 2011 è stata epicentro di una vera e propria sommossa popolare che portò alla morte di almeno 14 persone. Quei fatti, noti come “il massacro di Zhanaozen“, scaturirono da una protesta dagli operai della compagnia energetica Ozen i quali chiedevano un aumento dei salari e maggiore sicurezza sul lavoro. La Ozen rispose con un licenziamento di massa – circa mille lavoratori – che, a sua volta, provocò un’ondata di malcontento repressa infine nel sangue.

Negli ultimi mesi la città è tornata a essere teatro di tensioni causate, da un lato, da licenziamenti e precarietà lavorativa e, dall’altro, dalla povertà e dal malcontento della popolazione che si sono saldate nelle proteste contro l’aumento del gas.

Le proteste si sono allargate rapidamente a tutta la regione, fino a coinvolgere Aktau, capoluogo del Mangystau, per poi diffondersi ad Atyrau, altro importantissimo hub petrolifero nell’omonima regione a nord di Aktau.

Non sono proteste filo-occidentali

Il carattere spontaneo delle proteste è testimoniato anche dalla mancanza di una struttura politica che le coordini. Solo di fronte alla repressione del governo, le manifestazioni hanno assunto anche un carattere politico. L’abbattimento della statua di Nazarbayev è il simbolo di un malessere più profondo. Ma il carattere iconico di quell’evento non deve accecarci.

Non siamo di fronte a una protesta filo-occidentale. La satrapia di Nazarbayev è durata trent’anni senza che la maggioranza della popolazione avvertisse il bisogno di maggiore democrazia. Anzi quella della democrazia è spesso stata la foglia di fico dietro cui oligarchi caduti in disgrazia hanno cercato di ritrovare il proprio posto al sole, come dimostra il caso di Mukhtar Ablyazov, una delle figure che in queste ore stanno cercando di strumentalizzare le proteste.

Un intervento di polizia internazionale

La rapidità con cui si sono allargate ha preso in contropiede il governo e ha costretto il presidente Qasym-Jomart Toqayev a dichiarare lo stato d’emergenza e, successivamente, a chiedere l’intervento dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettivo (Csto), organismo guidato dalla Russia che riunisce Armenia, Bielorussia, Kirghizistan, Tagikistan e ovviamente Kazakhstan. Quello russo non è altro che un intervento di polizia internazionale. Bastonare i lavoratori e sostenere un regime amico. Tutto qui. Ma per dare legittimità alla propria azione repressiva, Mosca chiama in causa la vecchia teoria cospirativa della “rivoluzione colorata”. Non sorprende.

Quello che stupisce è che ci siano giornalisti, analisti e politici che, per spiegare i fatti di un paese lontano poco conosciuto, si attaccano alle teorie complottiste di quindici anni fa. Teorie che già erano poco efficaci nel descrivere quegli eventi, e ancora di più lo appaiono per spiegare quelli di oggi.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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