Speciale dedicato al trentennale della dissoluzione dell’Unione Sovietica in collaborazione con Q Code
Quando, nel 1990, il blocco sovietico si stava iniziando a dissolvere, l’Unione Sovietica non cadde solo in una crisi politica, ma anche economica. Infatti, la produzione di gas e di petrolio russo era drasticamente calata verso la fine degli anni Ottanta e una combinazione di crescente inflazione e indebitamento estero stava mettendo pressioni sulla stabilità del rublo. Sebbene la stragrande maggioranza degli economisti sovietici sostenessero la necessità di una transizione da un’economia sovietica pianificata a un’economia di mercato di stampo occidentale, essi si dividevano sulla metodologia da preferire. Da una parte, i radicali sostenevano che lo stato avrebbe dovuto lasciare le redini del sistema economico, la cui liberalizzazione avrebbe, di conseguenza, portato all’automatica allocazione delle risorse produttive e a una rapida crescita economica del paese. Dall’altra parte, vi erano i gradualisti, i quali ritenevano che la transizione necessitasse di un prolungato intervento statale non solo per rendere pronta l’economia alla transizione, ma anche per creare sostegno nella società alla riforma stessa. In questo contesto, Grigorij Javlinskij avrebbe giocato un ruolo cruciale.
Il personaggio
Nato in Ucraina nel 1952 da padre pluridecorato al valore militare e da madre chimica, Javlinskij frequentò la rinomata università di economia Plechanov di Mosca, specializzandosi in economia del lavoro. Dal 1984, iniziò a lavorare nel settore pubblico, dapprima come capo del dipartimento dello sviluppo sociale e della popolazione e, poi, come direttore del dipartimento per la transizione economica presso il Consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica.
Da quando era salito al potere, Mikhail Gorbačëv aveva adottato un approccio graduale alla liberalizzazione del paese, ma la sua perestroika aveva dimostrato molti limiti. Al contrario, la riforma economica polacca era diventata un esempio virtuoso di approccio radicale alla transizione verso un’economia di mercato. Per tale motivo, Javlinskij, allora direttore del dipartimento per la transizione economica, fu inviato a Varsavia a studiare le peculiarità della riforma polacca. L’approfondimento del caso polacco e la conoscenza che fece di numerosi economisti statunitensi, tra cui Jeffrey Sachs, lo indussero a comprendere che fosse necessario implementare una transizione rapida verso un’economia di mercato anche nell’intera Unione Sovietica. Pertanto, di ritorno dalla Polonia, egli propose un piano di transizione rapida da attuare in 400 giorni. Questo programma sarebbe stato alla base del successivo programma dei 500 giorni.
Il programma dei 500 giorni
Il programma dei 400 giorni fu, tuttavia, messo da parte da Gorbačëv, il quale preferiva, in tema di riforme economiche, fare maggiore affidamento al Gosplan, l’agenzia sovietica per l’economia pianificata. Quando, pochi mesi dopo, Boris El’cin, appena nominato a capo del Soviet Supremo della Repubblica socialista sovietica russa (RSFSR), ripropose il piano estendendolo a 500 giorni, Javlinskij decise di dimettersi dal suo posto nell’amministrazione centrale sovietica e fu nominato vice primo ministro della repubblica sovietica russa, con particolari competenze in tema di riforma economica.
Il piano si suddivideva in quattro fasi di liberalizzazione. L’URSS si sarebbe ricostituita in un’unione economica a cui le quindici repubbliche sovietiche avrebbe potuto accedere volontariamente. In questo nuovo contesto, un comitato economico inter-repubblicano sarebbe stato incaricato di gestire la transizione economica, mentre l’amministrazione centrale dell’URSS avrebbe mantenuto la competenza nei settori della difesa e dell’ambiente. La transizione verso un’economia di mercato si sarebbe sviluppata sia attraverso la de-statalizzazione, sia tramite la privatizzazione e avrebbe reso visibili i primi segnali di crescita economica sin dagli ultimi cento giorni dell’implementazione del programma.
Il contrasto politico
Tuttavia, mentre la RSFS russa sembrava voler portare avanti il programma dei 500 giorni, l’amministrazione centrale sovietica di Gorbačëv preferì affidarsi al primo ministro Nikolaj Ryžkov per la formulazione di un nuovo progetto di riforma economica. Infatti, il programma di Javlinskij avrebbe de-centralizzato molti poteri in tema di economia, questione che, al contrario, Gorbačëv voleva mantenere saldamente nelle proprie mani. Inoltre, esso era ritenuto troppo rapido e radicale, seppur progressivo. Allo stesso tempo, però, Gorbačëv voleva assicurarsi che la riforma economica fosse la stessa sull’intero territorio sovietico. Di conseguenza e in comune accordo con El’cin, il 2 agosto 1990, egli costituì un gruppo di tredici economisti ed esperti, sotto la guida dell’economista Stanislan Šatalin (per tale motivo, prese il nome di “Piano Šatalin”), i quali avrebbero dovuto elaborare un compromesso tra le due posizioni: tra le fila dei radicali, vi era Javlinskij stesso, mentre a sostegno dell’approccio graduale, vi era il vice di Ryžkov, Leonid Abalkin.
L’esperimento di collaborazione, però, non durò a lungo. Presto, Abalkin si ritirò dalle negoziazioni e ripropose il vecchio piano Ryžkov, mentre il Piano Šatalin finì per riprodurre pressoché fedelmente il programma dei 500 giorni. La tensione politica si aggravò ulteriormente quando, a settembre 1990, il parlamento della RSFS russa adottò il Piano Šatalin, mentre, il 19 ottobre, il Soviet Supremo sovietico adottò un nuovo piano presidenziale di riforma economica. Nonostante l’adozione del programma dei 500 giorni nella RSFS russa, il testo non fu mai veramente implementato, fatto che indusse Javlinskij a rassegnare le dimissioni nell’ottobre 1990. Egli aveva, infatti, compreso che questioni di natura politica rappresentavano il maggiore ostacolo a una concreta ed effettiva transizione verso un’economia di mercato. A causa di queste condizioni, “l’ingresso nell’economia di mercato non [sarebbe avvenuto] attraverso la stabilizzazione, ma attraverso l’aumento dell’inflazione”.
La figura di Javlinskij non sarebbe, però, scomparsa dai circoli intellettuali e politici. Nel 1991, insieme all’economista statunitense Graham Allison, propose un nuovo progetto di rinascita per l’economia sovietica. Essi ritenevano che un finanziamento esterno quinquennale di 30 miliardi di dollari ogni anno, combinato a una transizione democratica dell’URSS, sarebbe stato un “grande affare” (da qui, il piano venne chiamato “Grand Bargain”, grande affare). Pochi anni più tardi, Javlinskij si sarebbe anche cimentato nella politica nazionale russa, fondando il partito Jabloko e candidandosi più volte alle elezioni presidenziali (da ultimo, nel 2018).
Immagine: Wikimedia commons