L’Europa dei muri non è la nostra Europa

A trentadue anni dalla caduta del muro di Berlino, l’Europa costruisce nuovi muri. La richiesta stavolta viene da chi allora stava al di là della cortina di ferro. Serviranno, dicono, a tenere fuori persone dal colore della pelle diverso dal nostro, la cui povertà ci spaventa. L’Europa non sembra tirarsi indietro: il presidente del Consiglio Europeo (l’organo che riunisce i capi di governo dei 27) Charles Michel si è detto a favore della richiesta di 11 governi che a pagare muri e filo spinato siano i fondi europei.

E allora è arrivato il momento di rompere il silenzio e dire chiaro e forte che l’Europa dei muri non è la nostra Europa. Come scrive Andrew Stroehlein, “i filoeuropei che si astengono dal criticare i leader UE, anche quando questi propugnano politiche mortifere, rendono un enorme disservizio al progetto europeo. L’UE è fondata su valori umani, e se i nostri leader non agiscono secondo tali valori, l’ideale europeo stesso ne risente.”

A fine 2002, alla veglia dell’allargamento ad est e al lancio della Politica Europea di Vicinato (ENP), l’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi parlava di “a ring of friends“, una cerchia di paesi amici, che avrebbe dovuto circondare l’Europa riunificata. Una visione geopolitica che si è presto sfaldata: con l’imperialismo russo in Georgia (2008) e Ucraina (2014), con le primavere arabe del 2011, la restaurazione autoritaria in Egitto e le guerre infinite in Siria e Libia, e con l’autocratizzazione della Turchia post-2016. L’Europa di oggi si trova piuttosto circondata da “a ring of fire“, un cerchio di fuoco.

E l’Europa stessa è cambiata molto, e in peggio: dalla crisi finanziaria del 2008 siamo usciti a colpi di austerità che ha minato il tessuto sociale dei nostri paesi, ha incattivito gli elettorati e li ha spinti a riconoscersi sempre più in tribuni di estrema destra come quelli oggi al governo di Ungheria e Polonia. Tribuni, spesso ex liberali degli anni ’90, che per nascondere le proprie ruberie puntano il dito contro lo straniero, mentre sono vezzeggiati e riveriti dai “moderati” di centrodestra del PPE, che per un decennio hanno fatto loro scudo.

Nel frattempo, l’ideologia xenofoba è assurta a senso comune, e le politiche nazionali ed europee sono cambiate di conseguenza. Se nel 2013, dopo il disastroso naufragio di Lampedusa, Letta lanciava l’operazione di salvataggio Mare Nostrum, l’anno dopo Renzi la rottamava, in linea con un’azione europea sempre più volta a scoraggiare i salvataggi in mare, fino ad arrivare alla criminalizzazione delle ONG di soccorso sotto il ministero Minniti. Ben prima che arrivasse Salvini.

Fallito ogni tentativo di far rispettare il diritto europeo sull’asilo e di pensare ad una alternativa umana, l’unica politica che l’Europa è riuscita a metter in atto è quella della deterrenza, basata sulla creazione della sofferenza. L’Europa ha sollevato il ponte levatoio e si è circondata di un fossato.

Come scrive Kenan Malik per il Guardian, “per mantenere la “fortezza Europa”, l’UE ha finanziato un’enorme industria di rapimenti e detenzione in tutta l’Africa, dall’Atlantico al Mar Rosso, dal Mediterraneo fino al Sahara… Il dittatore bielorusso è un tiranno feroce le cui azioni sono inconcepibili. Non dobbiamo però permettere che l’UE usi le sue azioni immorali per imbiancare le proprie politiche, altrettanto ciniche, altrettanto brutali.”

Sul confine marittimo dell’Egeo e nei boschi dei Balcani, le polizie greche, bulgare, ungheresi e croate si sono specializzate per un decennio in respingimenti illegali – segreto di pulcinella di una Europa che chiude gli occhi e le orecchie di fronte ai crimini quotidianamente compiuti dai propri stati membri, mentre finanzia milizie libiche teleguidate dai droni europei, e che gestiscono centri di detenzione considerati veri e propri campi di concentramento dal Papa come dall’ONU, e la cui unica via d’uscita resta affrontare le onde del cimitero mediterraneo, tomba di 20.000 anime solo negli ultimi 7 anni.

E allora, come il dittatore turco Erdoğan da 5 anni in qua, non deve soprendere che sia oggi il dittatore bielorusso Lukashenko a fare lo stesso. Se la politica migratoria è il tallone d’achille dell’Europa, sarà lì che è più facile colpire. Come nota Andrew Connelly su Foreign Policy, “la risposta bellicosa e impanicata dell’UE a un problema gestibile è esattamente ciò che lo rende pronto ad essere sfruttato da attori ostili. L’ossessione dell’UE per la militarizzazione di una questione umanitaria e l’erosione del concetto di asilo stanno corrodendo principi che dovrebbero differenziarla dai bad guys.”

Intanto, mentre si parla di “scontri” e “invasioni”, chi muore sono giovani ragazzi e famiglie in fuga dalle guerre nel vicino Oriente, quelle stesse guerre bushiane (come in Iraq) che Polonia e altri paesi NATO hanno felicemente sostenuto nel 2003.

Che fare, dunque? Come scrivono Ian Bond, Camino Mortera-Martinez, Luigi Scazzieri e Katia Glod per CER, il problema è Lukashenko, non i migranti. “Invece di alimentare la narrativa della crisi migratoria, le autorità europee dovrebbero iniziare a chiedersi quali sono gli obiettivi di Lukashenko e assicurarsi che non possa raggiungerli.” Inoltre “gli europei non dovrebbero cercare di risolvere la crisi trattando i migranti in modo brutale. I migranti sono esseri umani, dovrebbero essere trattati con equità e con rispetto.”

Nel breve termine, come ricorda Lydia Gall per Human Rights Watch, “per prevenire ulteriori decessi, l’UE e i suoi Stati membri devono collaborare con la Polonia per garantire immediatamente l’accesso umanitario alle aree di confine, oggi off-limits. La Polonia deve mettere fine ai respingimenti illegali in Bielorussia, dove i migranti subiscono un trattamento disumano e degradante, e invece consentire loro l’accesso alla procedura d’asilo e condizioni di accoglienza dignitose. Da parte sua, la Bielorussia deve mettere fine agli abusi contro i migranti, facilitare l’accesso umanitario a coloro che si trovano al confine e consentire a coloro che lo desiderano di lasciare la zona di confine e tornare a casa. Questa è una crisi umanitaria e coloro che vi sono intrappolati hanno un disperato bisogno di una risposta umana e matura.”

Una risposta che mette in gioco non solo la reputazione dell’Europa, ma la nostra stessa umanità. 

Foto: Agnieszka Wrzosek

Chi è Andrea Zambelli

Andrea Zambelli è uno pseudonimo collettivo usato da vari membri della redazione di East Journal.

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Un commento

  1. E se tutto nascesse dal fraintendimento che la UE sia fondata su valori umani? Confortata dai fatti vedo da sempre un Europa fondata sul commercio e la finanza, governata da un organismo che non essendo eletto può serenamente vendersi al miglior offerente senza nemmeno la paura della destituzione. Abbiamo goduto di libera circolazione per qualche anno ma già in occasione del G8 di Genova questo diritto veniva sospeso in attesa di trovare il modo di limitarlo definitivamente, e ci stanno riuscendo, aiutati dal terrore costruito sulla pandemia. Le uniche libere di circolare sono le merci e includo in questa categoria anche gli esseri umani quando si prestano ad essere funzionali al mercato, quindi merci. Tutto questo stupore sul confine polacco è pura ipocrisia, la merce di Lukashenko al momento non serve e su tutto aleggia Nord Stream 2

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