Un indizio fa sorgere dei sospetti: ma tre indizi convergenti e non collegati tra loro assumono quasi il valore di una prova. L’11 febbraio scorso Donald Trump ha impedito per due volte l’accesso dei giornalisti della Associated Press – una delle maggiori agenzie di stampa mondiali – ad eventi pubblici organizzati dalla Casa Bianca, con l’assurdo pretesto che quel media indipendente (l’A.P. appartiene a una cooperativa di organi d’informazione) si rifiutava di cambiare il nome del Golfo del Messico in ‘Golfo dell’America’, come da decreto presidenziale (esclusione poi condannata, ma al momento senza effetti concreti, da un giudice federale).
A questo primo episodio ha fatto seguito un ostracismo ancor più esteso, in quanto l’ammissione alle conferenze stampa presidenziali di numerosi rappresentanti di nuovi media (blogger, podcaster e creatori digitali, spesso esponenti del movimento MAGA) ha comportato, a causa del ristretto numero di posti nella briefing room della Casa Bianca – 49 seduti – la concomitante esclusione di alcune testate ritenute poco amichevoli, in quanto la concessione degli accrediti è decisa dalla Casa Bianca stessa. Un risultato si è visto nel famoso incontro/scontro con Zelensky, dove un esponente di questi media ‘non convenzionali’ non ha esitato a irridere l’ospite ucraino per il suo abbigliamento non convenzionale. Primo indizio.
Contemporaneamente, anche i quotidiani sono entrati nel mirino. Anzi, prima che Trump fosse eletto (ma quando già pareva probabile che avrebbe vinto) il Washington Post, per volontà del suo proprietario (nonché di Amazon) Jeff Bezos, aveva bloccato contro il parere della redazione il tradizionale endorsement del quotidiano per uno dei candidati, in questo caso per la rivale di Trump, Kamala Harris. A tale censura preventiva ha fatto seguito il 26 febbraio una disposizione editoriale che stabiliva che punti di vista diversi da quelli stabiliti dall’editore stesso non dovevano trovare spazio nelle pagine delle opinioni, con una motivazione anch’essa assai curiosa: ‘C’era un tempo in cui un giornale, specialmente uno che costituiva un monopolio locale, avrebbe potuto vedere come un servizio portare ogni mattina a casa del lettore una sezione di opinioni di ampio respiro che cercava di coprire tutti i punti di vista. Oggi, internet fa questo lavoro.’ Già, peccato che, da che mondo è mondo, la pagina delle opinioni sia nata appunto per presentare diversi punti di vista. Il responsabile di quella pagina, David Shipley, ha presentato le dimissioni e sarà sostituito. Secondo indizio.
Il terzo indizio non è un semplice episodio di intolleranza, ma una decisione politica dalle conseguenze globali a lungo termine. Sotto la testata dello stesso Washington Post campeggia da decenni un motto: ‘Democracy dies in Darkness’. Solo che in questo caso non è il buio, ma il silenzio ad essere stato imposto ad alcune celebri emittenti radiofoniche statunitensi. The Voice of America, Radio Free Europe/Radio Liberty, Radio Free Asia sono solo le più note vittime di una decisione apparentemente inspiegabile: si tratta di emittenti pubbliche, governate, controllate e finanziate dal governo americano, e dai tempi bui dell’ultimo conflitto mondiale e della guerra fredda hanno diffuso la voce della democrazia, la conoscenza delle libertà civili e politiche e dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino in Paesi soffocati da regimi autoritari che non consentivano ai propri sudditi libertà di informazione e di espressione. Poiché sempre più Paesi versano tuttora in queste condizioni (vedi ad esempio l’Iran, dove trasmetteva Radio Farda, anch’essa silenziata), viene da chiedersi: perché gli Stati Uniti decidono di privarsi di questa potente e capillarmente diffusa arma di soft power? Secondo le argomentazioni dello stesso Trump e del suo entourage le radio erano rappresentative di opinioni e concezioni legate al Partito democratico, avversario di quello repubblicano. Ma anche fosse vero, perché spegnerle proprio ora, quando la nuova amministrazione Trump potrebbe gestirle a proprio modo (basti pensare che chi ci lavora è un dipendente pubblico)?
Temo che la risposta alla precedente domanda sia che queste emittenti non possano ormai che essere inutili se non dannose per la nuova amministrazione, visto che il modello di governo che il Presidente Trump e la sua cerchia di oligarchi e di sottoposti vogliono affermare qui in Occidente sta slittando verso una china che potrebbe portare a qualcosa di meno lontano da quei regimi illiberali che le gloriose radio volevano contrastare. Verso ciò del resto convergono i tre indizi di cui sopra. Forse al di là persino delle intenzioni: messi da parte o irrisi i diritti umani, forzato in senso anarco-populista l’equilibrio dei poteri e lo stato di diritto, resterebbe in piedi solo la legge naturale più antica del mondo, più arretrata persino delle più antiche civiltà umane, poiché tutte le precede: la legge del più forte, lo strapotere delle maggioranze nei confronti delle minoranze, l’oppressione da parte dei più o dei più potenti (a seconda dei casi) nei confronti dei più deboli, da affermare in politica sia interna sia estera. Infatti, non vi è alcun bisogno di sostenere questa regola ancestrale attraverso apposite emittenti statali: basta spegnere tutte le voci contrarie, ed essa si affermerebbe da sé, proprio in quanto istintiva e naturale. E purtroppo, quando i governi iniziano a spegnere ‘The Voice’ delle opposizioni, intraprendono una strada senza ritorno, poiché non possono più essere scalzati democraticamente, ma solo attraverso eventi drammatici come sconfitte militari, guerre civili o catastrofi epocali.
Per questo l’Europa dovrebbe provvedere ad armarsi di soft power: a quando una radio The Voice of Europe, rivolta ai tanti popoli oppressi del mondo, ma soprattutto a quelli dei cosiddetti ‘paesi in bilico’ dell’Est e del Sud euromediterraneo?