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“Routes”, la rotta balcanica nei racconti di volontari e rifugiati. Intervista a Petar Bojovic

Il Calvert Journal inaugura la seconda edizione del suo festival online dedicato al grande cinema dell’Europa orientale, dei Balcani e dell’Asia Centrale. La rivista londinese documenta da diversi anni le ultime novità della cultura e della creatività del cosiddetta macro-regione del “Nuovo Est”, con articoli di approfondimento, interviste, servizi fotografici e video-reportage. Dal 18 al 31 ottobre, l’evento proporrà 35 titoli, suddivisi in sette categorie: documentari, film d’animazione, lungometraggi di fiction, film degli studenti delle scuole di cinema, film sperimentali, cortometraggi e proiezioni speciali. I titoli saranno tutti disponibili per 48 ore sulla piattaforma Eventive.

East Journal ha intervistato cinque registi di cinque film che parteciperanno al festival. “Routes”, documentario di Petar Bojovic, sarà disponibile a questo link il 18 e 19 ottobre.

In questo documentario, il regista serbo Petar Bojovic segue il difficile e lungo viaggio dei rifugiati lungo la rotta balcanica, da Serbia, Grecia e Ungheria fino alle loro ambite e apparentemente irraggiungibili mete in Europa Occidentale. Raccogliendo decine di interviste a rifugiati, volontari e membri di organizzazioni internazionali, Bojovic racconta le difficoltà ma anche la normalità della vita dei rifugiati durante il loro viaggio verso l’Europa.

Petar, perché hai deciso di fare un documentario sulla rotta balcanica e la crisi migratoria nel 2021, ora che il picco sembra passato e l’attenzione mediatica si è abbassata? O è stato proprio questo che ti ha spinto a parlare di questo argomento adesso?

In realtà, abbiamo cominciato a girare nel 2017. Non abbiamo una grande produzione alle spalle e abbiamo gestito la parte finanziaria e le interviste da soli. Quindi ci è voluto fino al 2021 per completare il film.

Avete girato in molti paesi, Serbia, Grecia, Macedonia, Ungheria, Turchia, e raccolto moltissime interviste per questo film. Come è stata l’esperienza di questo viaggio e come hai fatto a raccogliere interviste così diverse? Nel film compaiono rifugiati, lavoratori umanitari, volontari e rappresentanti ONU e di altre organizzazioni umanitarie internazionali.

Il viaggio per girare il film è durato circa 3 mesi e mezzo. Grazie ai vari membri del nostro team, tra cui molti di Refugee Aid Serbia, l’ONG per cui ho lavorato anch’io, abbiamo una rete di persone in tutta Europa legate a questo fenomeno, ed è così che ne abbiamo conosciute altre. Quando siamo arrivati in Grecia, per esempio, l’unico contatto che avevamo era un giornalista freelance, ma parlando con quel giornalista abbiamo scoperto altre realtà locali. Alcune interviste erano pianificate, ma in molti casi semplicemente ci presentavamo in un posto e vedevamo cosa succedeva e chi si sentiva a suo agio a parlare con noi.

Perché hai deciso di dare primo piano al punto di vista dei lavoratori umanitari e dei volontari, e non, ad esempio, a quello dei rifugiati?

Anche qui, in parte è stata una decisione intenzionale, in parte no. Non volevo raccontare una storia che non conoscevo, perché io non sono un rifugiato o un migrante, e in più ci sono già molti film e documentari di questo tipo. Volevo raccontare una storia che conoscevo con persone che conoscevo. Siccome io ero in quel mondo di volontari, aveva senso per me raccontare questa storia dalla loro prospettiva. Questo non significa che la loro prospettiva sia più importante, è solo un’altra prospettiva.

Anche tu sei stato volontario e nel film racconti la tua esperienza. Per chi non ha ancora visto il film, ci puoi raccontare cosa ti ha portato a diventare un volontario?

Io sono serbo, ma dopo gli anni ’90, poco prima della disgregazione della Jugoslavia, ho vissuto per un po’ in Nuova Zelanda, poi mi sono laureato e sono tornato in Europa; poi mi sono trasferito in Australia. Quindi ho vissuto un po’ ovunque, facendo avanti e indietro. Nel 2016 sono tornato in Serbia per vedere la mia famiglia e i miei amici, pensavo di rimanere al massimo un mese. Poi un giorno con mia sorella stavamo passegiando per Belgrado e ho visto questa lunghissima fila di persone. Ho capito che non erano serbi, e all’inizio non riuscivo a capire chi fossero e cosa stessero facendo, finché mia sorella non mi ha detto che erano rifugiati. Ovviamente sapevo della crisi dei rifugiati dai giornali, ma vivendo in Australia mi sembrava tutto così lontano, fino a quel giorno. Siamo andati dai volontari che stavano distribuendo cibo ai rifugiati per dare una mano, ma ci hanno detto di andare via. Poi ho cercato su internet e ho trovato Refugee Aid Serbia. Ho cominciato a fare volontariato per loro e man mano sono diventato sempre più coinvolto e ho deciso che sarei rimasto più a lungo. Così sono rimasto per tre mesi, e più restavo, più ero coinvolto, e più quello che facevo si trasformava da volontariato a un lavoro professionale. Non ero più solo parte dei gruppi che distribuivano aiuti umanitari: avendo lavorato coi media in Australia, ho iniziato a fare video promozionali per le donazioni e cose del genere. Alla fine si è creato un gruppo di circa quattro persone, che hanno partecipato anche al film, e che erano lì da circa sei mesi, e con loro abbiamo finito per gestire l’organizzazione. Per aiutarci con la raccolta fondi abbiamo pensato di provare a fare un mini-documentario. Siamo arrivati a raccogliere 30.000 euro e così abbiamo pensato che avevamo abbastanza soldi per fare un documentario vero e proprio e abbiamo iniziato a trovare vari professionisti in giro per l’Europa che hanno deciso di unirsi a questo progetto.

Cosa è successo con Refugee Aid Serbia, dopo che te ne sei andato? Continuano a lavorare in questo campo?

Sì, hanno creato un centro educativo per i rifugiati che adesso è la parte importante della loro attività. Ora la situazione è diversa: anche se ci sono migranti, lo stato e le altre grandi organizzazioni riescono a coprire la maggior parte dei loro bisogni. Nel 2016 la situazione era molto più grave, noi eravamo tra le poche organizzazione locali che facevano distribuzione di generi alimentari. Adesso riescono a gestire la situazione le grandi organizzazioni, come UNHCR e MSF, ma all’epoca loro preparavano gli aiuti umanitari che noi aiutavamo a distribuire.

Una voce che manca nelle interviste è quella dello stato e dei governi dei paesi che si trovano a gestire questa crisi. È stato intenzionale, o si sono rifiutati di prendere parte al documentario?

Personalmente penso che in Serbia ci sia una dittatura e quindi è difficile avere accesso al governo, in particolare relativamente a questioni come questa. Semplicemente ho pensato che, se anche fossi riuscito a parlare con qualcuno del governo, avrei ottenuto solo retorica e ho deciso di non sprecare il mio tempo. Ho pensato che avesse più senso parlare, ad esempio, con l’UNHCR a Belgrado per avere un resoconto ufficiale ma corretto della situazione; perché alla fine l’ONU deve collaborare con il governo serbo, quindi non possono proprio dire quello che vogliono. In posti come Grecia e Ungheria, ho preferito non attirare l’attenzione su di me e sul progetto per evitare che mi venisse tolto l’accesso ai campi. Devo dire che non ho mai avuto problemi a visitare i campi, il che mi ha sorpreso. In Serbia, quando sono andato in un campo migranti, sono entrato nella stanza che era il quartiere generale, pensando che mi avrebbero assegnato qualcuno che mi avrebbe accompagnato durante tutta la mia visita. Questo quartier generale era una stanza con un tavolo, alla fine del quale c’era una foto del presidente e una bandiera serba gigante e un paio di impiegati del commissariato che fumavano una sigaretta. Pensavo mi avrebbero detto dove potevo andare e cosa non potevo fare, invece mi hanno detto: “Vai dove vuoi, basta che non disturbi i rifugiati se non vogliono essere filmati”. È andata diversamente in Turchia, dove c’era appena stato il colpo di stato e il paese era in stato di emergenza, quindi abbiamo dovuto richiedere una quantità ridicola di permessi. Per questo nei Balcani, in Ungheria e in Grecia volevo cercare di passare inosservato.

Una delle ingiustizie che mostri nel film è l’uso della violenza da parte della polizia. Hai avuto dei problemi con la polizia mentre giravi?

Non direttamente, perché sono serbo. Io non ho mai visto personalmente la polizia usare violenza contro i rifugiati, ma mentre giravo il film ho visto molti casi di rifugiati che tornavano con ferite e cose del genere. So dove andare per filmare la violenza, ma ho preferito dare priorità alla sicurezza della troupe.

Alla fine del film mostri la preparazione per il Festival cinematografico “Routes”, che dà anche il nome al documentario, e che mostra come l’integrazione dei migranti con la comunità sia possibile. Perché hai deciso di raccontare la preparazione del Festival? Volevi lasciare un messaggio positivo alla fine del film?

Nel film mostro tante cose negative, ma voglio che la gente capisca che anche in questo caos c’è una vita che viene vissuta. Conosco famiglie di rifugiati che hanno avuto bambini durante il loro viaggio, o visto rifugiati che festeggiavano il loro compleanno. Quindi sì, i rifugiati sono persone vulnerabili ma non possiamo ridurli semplicemente a vittime. Vivono la loro vita, anche se non è una vita facile, e quindi penso che sia importante ricordare che, anche se quando dici “rifugiato” la gente ha tantissime immagini negative, ci sono altri modi di guardare e pensare a questa crisi.

Chi è Martina Bergamaschi

Laureata in Interdiscilplinary Research and Studies on Eastern Europe all'Università di Bologna, lavora nel campo della cooperazione internazionale, al momento nell'est dell'Ucraina. Per East Journal scrive soprattutto di Russia, dove ha vissuto per due anni tra Mosca, San Pietroburgo e Kirov.

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