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BALCANI: Albania, Kosovo e Macedonia del Nord accolgono i profughi afgani

La drammatica escalation afgana di queste settimane non è solo la cronaca delle bombe, degli attentati e dei morti ammazzati. E nemmeno solo quella che racconta un paese tornato nelle mani dei talebani dopo vent’anni in cui l’Occidente ha tentato, tanto velleitariamente quanto presuntuosamente, di esportare la famosa democrazia. Ma è anche la cronaca, tragica, della disperazione di milioni di persone che, d’improvviso, sono ripiombate in un passato la cui misura non è quella degli anni trascorsi dall’inizio dell’intervento americano post 11 settembre ma quella della sharia applicata secondo i dettami più radicali.

Disperazione che significa fuga, nuovi profughi. Persone pronte a lasciare il paese con ogni mezzo e, sembrerebbe, senza il supporto del mondo che, in sede ONU, non ha trovato alcun accordo per istituire una safety zone a Kabul per continuare a evacuare i civili.

Una stima dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) valuta in almeno mezzo milione le persone che cercheranno di uscire dal paese entro la fine dell’anno, un fiume che si riverserà nei paesi limitrofi (Pakistan e Iran, in primis) e in Europa; e che l’Europa dovrà gestire, tra veti incrociati, egoismi assortiti e discussioni ben poco memorabili.

L’accoglienza nei Balcani

Ma tra muri che si erigono (Grecia, Lituania) e la conclamata indisponibilità all’accoglienza già manifestata dai paesi del patto di Visegrad – con l’Ungheria di Viktor Orban in testa –  spicca la presa di posizione di alcuni paesi balcanici, Albania, Kosovo e Macedonia del Nord, che hanno già iniziato a dare rifugio a parte dei profughi afgani. Si tratta di personale che ha lavorato con gli Stati Uniti, con la NATO o che è stato impiegato nelle missioni internazionali – inclusi naturalmente i familiari – che verrà ospitato nei Balcani in attesa che vengano espletate le formalità richieste per l’ottenimento del visto americano.

In Kosovo sono già giunte nei giorni scorsi oltre un centinaio di persone, perlopiù donne e bambini, che sono state ospitate in un campo nelle vicinanze della base militare statunitense Bondsteel, nell’est del paese. Si tratta, secondo gli accordi stretti tra il presidente americano, Joe Biden e quello kosovaro, Vjosa Osmani, di un primo gruppo di almeno duemila persone che soggiorneranno in Kosovo per non più di un anno. Nell’annunciare l’iniziativa la presidente kosovara non si è fatta sfuggire l’occasione per attaccare – seppure indirettamente –  la vicina Serbia, dichiarando che “come persone che provengono da un governo genocida capiamo molto bene cosa significa essere costretti a lasciare la propria casa”, con un chiaro riferimento ai drammatici eventi di fine anni ’90 del secolo scorso.

Situazione analoga in Albania dove la settimana scorsa è giunto, con un volo commerciale all’aeroporto di Tirana, un gruppo di oltre 120 richiedenti asilo (tra cui 9 neonati), solo parte delle quattromila persone che il primo ministro albanese, Edi Rama, si è impegnato a ricevere. Sarebbero invece circa 1800 i profughi che il primo ministro macedone, Zoran Zaev, avrebbe promesso di ospitare in Macedonia del Nord nei prossimi mesi, cento dei quali sono già arrivati a Skopje la settimana scorsa.

La chiave politica

Fuor di retorica e comunque oltre l’aspetto squisitamente umanitario, la disponibilità dei tre paesi balcanici va ovviamente letta in chiave politica (da rilevare che Albania e Macedonia del Nord sono membri NATO e che l’Albania ha anche partecipato militarmente alla missione in Afghanistan), ovvero con la necessità di rinsaldare le relazioni con gli Stati Uniti, a maggior ragione ora, dopo le recenti difficoltà incontrate nell’estenuante processo di integrazione europea.

Non è un caso che ad accogliere i primi profughi afgani all’aeroporto di Pristina fosse presente, al fianco dell’ambasciatore americano in Kosovo, Philip Kosnet, anche il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, come a valore rimarcare che la questione è seguita ai massimi livelli. E’ stato Kurti stesso, d’altra parte, a riconoscere che la vicenda “ha una dimensione di alleanza e partenariato con gli Stati Uniti”. Scelta analoga per l’Albania che, al fianco dell’ambasciatrice statunitense, Yuri Kim, ha delegato la ministra degli esteri, Olta Xhaçka, a rappresentare il governo all’arrivo dei primi rifugiati.

Gli “altri” Balcani

La scelta di Albania, Kosovo e Macedonia del Nord è rimasta isolata e non è stata seguita dagli altri paesi dell’area. E se la disponibilità della Croazia ad accogliere un numero ridottissimo di rifugiati (20) è smaccatamente ipocrita e quella di Serbia e Montenegro esclusivamente formale – dopo la firma dell’accordo con gli Stati Uniti nessun piano di collocamento è stato annunciato -, è invece esplicitamente ostile la posizione annunciata dalla Slovenia per il tramite del suo primo ministro, Janez Janša, contrario a qualsivoglia ipotesi d’apertura di corridoi umanitari.

Non un dettaglio questo, dato che la Slovenia è attualmente componente del trio (con Germania e Portogallo) della presidenza del Consiglio dell’Unione europea; e neanche un sorpresa, comunque, visto che il tema del “rafforzamento della sicurezza della UE” e quello di “una gestione più efficace delle pressioni migratorie” sono esplicitamente enunciati nel programma politico sloveno per il suo semestre di presidenza, secondo il classico parallelismo migrazione – sicurezza tanto in voga in gran parte della destra continentale.

Al contrario la generosità dei tre paesi balcanici, i più poveri dell’area e tra i più poveri d’Europa, si configura come la risposta più commovente all’analfabetismo dei nostri tempi; così diffuso, anche tra la gente comune, da incarnarsi – tanto perfettamente quanto inevitabilmente – nell’operato dei governi che ne sono emanazione politica. Un analfabetismo fatto di un vocabolario che confonde i termini “accoglienza” ed “emergenza”, li sovrappone, li accavalla, li accomuna. Fino a renderli indistinguibili, tragici sinonimi.

Foto: Vista Wei

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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