RELIGIONE: Yerevan, capitale del libro e della memoria

di Enzo Nicolò di Giacomo

Ogni anno l’Unesco assegna il titolo di Capitale del Libro ad una città, con lo scopo di utilizzare i programmi culturali da questa promossi, per la diffusione del libro e della lettura. Il 2012 è l’anno di Yerevan, capitale dell’Armenia, proclamata anche capitale del libro per tutto l’anno in corso. Yerevan sembrerebbe gemellata con Venezia, dato che quest’ultima lo scorso dicembre, ha allestito una serie di mostre nelle principali aule museali della città, per il cinquecentenario del “primo libro stampato in lingua armena”.  Sembra quasi un atto di fede credere che d’un colpo l’ormai semi-cristiano occidente  possa ricordarsi di un popolo sofferente e dimenticato, come quello armeno, che ha subito una delle persecuzioni più grandi del Novecento. La venerazione culturale che nasce in vista di questi eventi, spesso si scontra con un  dato di fatto e con una strana e alquanto bizzarra presa di coscienza, che  fa insorgere in molti intelletti, un doloso e colpevole senso di imbarazzo e di rimozione, verso il naturale  e oggettivo sacro dovere del ricordo, per  il Medz Yeghern,  o più semplicemente, “grande genocidio armeno” per opera e per mano dei “giovani turchi” nel 1915 e  precedentemente già in un primo atto di sterminio, nel 1894-96.

Già, proprio così,  il genocidio armeno è fonte di imbarazzo per molte élite di pensatori europei.  Dimenticato, scalzato, abbandonato al ricordo, solo degli attivisti e dei principali esponenti della folta comunità armena internazionale, presente in numerosi stati occidentali. Ma il Medz Yeghern (grande male in lingua armena) c’è stato davvero e fa comunque parlare di sé.  Se la Shoah è stata il male grande del Novecento, il “grande male degli armeni” verificatosi durantela Prima guerra mondiale non è stato un crimine meno grave. Non è un ritornello che vuol fare  un certo illusionismo storico, volto a patteggiare per gli armeni, piuttosto che per il popolo ebraico. Non ci sono né primi nè secondi, nè una classifica di merito, per le atrocità o per l’umana ferocia.

Ma va detto, comunque, che  risulta doverosa  una liturgia del ricordo universale,  quale espressione sentimentale umana  che varca i confini dell’intelligentismo  e  del tollerantismo, così tanto di moda nel nostro presente, che faccia in modo, che si possa parlare della Shoah senza permettere un ulteriore male maggiore, quale il non parlare  del genocidio armeno.

La Shoah c’è stata, così come c’è stato il Medz Yeghern, così come v’è stato il grande genocidio dei circassi o adighi (come preferiscono essere chiamati)  nel 1864, perpetrato  nell’impero zarista di fine ottocento, per mano dei russi. E se finiva un genocidio, già ne cominciava un altro: l’uno figlio e padre dell’altro, tanto da creare una concatenazione di umano odio, perpetratosi in danno dell’umana famiglia, per generazioni e generazioni. Ed il Medz Yeghern è stato un genocidio, con buona pace per tutti quei gruppi di  pensatori attuali, siano essi  turchi,  siano essi  europei di varia estrazione culturale, che negando l’azione criminale di  quei movimenti patriottici turchi di inizio Novecento, responsabili dello sterminio pianificato ed orrendo di quasi un milione e mezzo di armeni, vorrebbero gettare in confusione  e nel dimenticatoio, un fatto storico realmente accaduto, del quale il popolo turco ( così come qualsiasi altro popolo gravato da proprie responsabilità di governo) si trascina con sé le proprie colpe! Tutto ciò,   “normalmente”  dovrebbe essere  annoverato,  ancor prima   di  raccontare  gli  entusiasmanti  proclami  celebrativi  di Ataturk, nella costituzione di una nazione moderna e tollerante.

Un genocidio attuato in danno delle popolazioni armene della Turchia, che ad inizio secolo costituivano la principale minoranza nazionale presente nell’Anatolia orientale, entro i confini del decadente ed esausto Impero Ottomano, che volgeva alla fine della sua gloriosa epoca di conquista e di “turanizzazione” dei popoli ad esso soggetti, non può essere volutamente dimenticato e volontariamente ignorato da governanti, da statisti, da storici e persino da  idealisti.

Eppure il popolo armeno, è sopravvissuto al grande genocidio, ed ha anche vinto la sua scommessa con la morte e con la barbaria perpetrata da popoli culturalmente assai inferiori ad esso, e assai in debito con una cultura, quale quella armena, che decanta innumerevoli pregi nel campo delle arti e delle conoscenze umane . Ebbene ribadire, che gli armeni o hayery sono il più antico popolo cristiano della terra. Si convertirono infatti nel 301 d.C., prima ancora dell’editto costantiniano, costituendo così il primo popolo cristiano con una fede ufficialmente proclamata quale religione dello Stato.

La fede armena rappresenta una delle cinque costole del cristianesimo. Ad essa fa capo la Chiesa Apostolica Armena, una delle chiese orientali separate dal cattolicesimo romano e dalla ortodossia di Costantinopoli, ed anche dalla slava cristianità di Mosca e dalla ulteriore e distinta cristianità copta di Alessandria d’Egitto e di Addis Abeba e quindi costituente uno dei rivoli del più ampio alveo dell’insieme di chiese cristiane.

La chiesa apostolica armena, si considera come una chiesa cristiana anti-calcedoniana, poiché non riconosce i dogmi sanciti nel concilio di Calcedonia del 451 d.C., con il quale vennero canonizzati i concetti base della teologia cristiana in merito alle questioni cristologiche sulla natura trinitaria di Dio. Essa si colloca così, nel gruppo delle chiese antiche orientali, distaccatesi ancor prima del Grande Scisma  del 1054, che definì per sempre la frattura tra cattolicesimo ed ortodossia all’interno del mondo cristiano. Frattura mai più ripristinatasi.

La divina liturgia  della chiesa armena, è ricca di grandi significati antropologici e culturali, relativi a forti legami con un passato eterodosso, nel quale la divisione teologica, avvenuta in seno alla prima universalità della chiesa cristiana,  ha riguardato oltre che grandi questioni dogmatico-filosofiche, anche ed in buona parte, il mantenimento di una forte e pregnante componente culturale dell’Armenia – nazione già 150 anni prima del sopracitato Concilio di Calcedonia. Dal pane azzimo al vino non temperato (non mescolato) la ritualità della liturgica armena,  si arricchisce di quegli elementi peculiari del piccolo Caucaso, che hanno forgiato il modo di essere devotamente cristiani-gregoriani col modo di essere e di appartenere alla comunità nazionale degli hayk, cioè del sentirsi pianamente armeni. Non è difficile immaginare, come possa essere stato tortuoso e difficile, il percorso storico della nazione  armena, circondata spesso da un mare di ostilità, a causa dell’influenza nefasta di tanti popoli confinanti. Popoli nomadi e guerrieri, adagiati alle vecchie vestigia dell’Impero bizantino e tendenti al paradigma felice dell’oriente persiano, unico punto culturale vicino e compatibile con essi, ma che è apparso quasi sempre, come una meta inarrivabile ed un suggestivo miraggio da mille e una notte!

Gli armeni  parlano una lingua appartenente alla grande famiglia delle lingue  indo-europee,  molto simile all’iranico, ma da esso distinta non solo per specificità ma anche per la presenza di un alfabeto totalmente diverso dal persiano.  Da un certo punto linguistico, sono imparentati anche con la lingua greca, e condividono entrambe, alcune medesime strutture morfologiche, presenti all’antico frigio parlato un tempo nell’Anatolia e adesso estinto.

Ma più che da un punto di vista linguistico,  armeni e greci  sembrano accomunati   maggiormente ad una  ellenistica forma di condivisione di ortodossia della fede cristiana. Non è altrettanto difficile immaginare, come nel secolo scorso, questo popolo del Piccolo Caucaso sia stato oggetto di conquista, sia dai tanto odiati e brutali invasori turchi, sia dell’Impero Zarista, che in funzione difensiva spesso  si è valso della qualifica di difensore della cristianità caucasica,   prendendo parte a sanguinose guerre,  circostanziate da mille interessi, giustificati anche da mutevoli ragioni di natura politico-economica.

Dopo essere stati soggiogati per secoli, da molte orde di migrazioni di popoli nomadi, da sultanati  turco-mongoli poi ottomani, dopo essere stati inglobati da russi per poi diventare  sovietici,  dopo essere stati  attratti da potenze ad essi ostili, gli armeni sono sopravvissuti, legati allo spirito forte della loro indole fiera e alla propria specificità culturale.

Il grande gioco di Rudyard Kipling,  nel corso dei decenni, ha dimostrato sotto vari aspetti, che l’interesse per l’oro nero di Baku e di tutto il petrolio  dell’Azerbaijan, era divenuto fonte di disperazione per tanti popoli che pur essendo accomunati dalla lingua e da un cultura compatibile,  si ritrovavano nonostante tutto,  accomunati anche dall’avidità e dalla bramosia di ottenere terre ricche di “nafta”, tanto da piegarsi a logiche strane e contorti giochi di potere. Molti popoli ufficialmente amici e accomunati da una bizzarra fratellanza religiosa, cominciarono a detestarsi sino all’inversosimile.

Un milione e mezzo di morti sono forse troppo pochi, perché l’occidente si ricordi dopo quasi 97 anni, di un altro genocidio dimenticato e lasciato nel silenzio. Messo a tacere, chissà da quali imbarazzi diplomatico-culturali, il grande male riecheggia  cinematograficamente parlando, nelle scene suggestive di una pellicola italiana, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (La masseria delle Allodole, 2007) tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan.
Ma girando per le piazze della capitale armena, nel soffio del vento proveniente dal tauro armeno, dal cratere monumentale dedicato al Medz Yeghern, ove arde tristemente la fiamma della memoria, posto in una piazza centrale della città, sembra liberarsi nell’aria un eco triste, che pare voler dare all’Europa e al mondo intero, questo messaggio: questa è Yerevan capitale del libro, questa è  Yerevan  capitale della memoria.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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5 commenti

  1. Splendido articolo !!! Oserei dire perfetto !! In poche parole chi conosce poco o nulla degli Armeni si fa una chiara ide della loro cultura, della loro tradizione e delle loro particolarità. In più, viene voglia di approfondire questa prima infarinatura.
    Romano Interlandi

  2. Grazie del articolo. Due cose :1.Chiesa Armena è pre-calcedoniana. 2.Al Concilio di Calcedonia del 451 si discuteva di natura umana e divina di Gesù, e non di “questioni cristologiche sulla natura trinitaria di Dio”. Grazie ancora.

  3. Mah può darsi: ma…secondo alcuni studiosi: la Chiesa Cristiana Apostolica Armena è anche ANTI o…per meglio dire NON Calcedoniana!!!

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