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BOSNIA: Addio a Jovan Divjak, il generale che restò fedele alla sua Sarajevo

È morto giovedì 8 aprile a Sarajevo, a 84 anni, il generale Jovan Divjak, amatissimo nella capitale bosniaca.

Nato a Belgrado nel 1937 in una famiglia di origine serbo-bosniaca, Divjak fece carriera nell’esercito popolare jugoslavo (JNA), frequentando anche la scuola per ufficiali dell’esercito francese a Parigi nel 1964. Trasferitosi a Sarajevo, dopo vari incarichi militari nel 1984 fu nominato a capo della Difesa Territoriale (Teritorijalna Obrana) della Bosnia Erzegovina – il corpo di riservisti civili che, nella strategia militare jugoslava, avrebbe dovuto condurre la guerriglia partigiana in caso di occupazione nemica. Fu anche grazie a lui che, all’avvio del conflitto, la Bosnia Erzegovina riuscì a montare una pur debole difesa contro l’esercito jugoslavo.

Nel 1991, vedendo come l’esercito jugoslavo, ormai sotto il controllo di Milošević, armava le milizie serbobosniache in vista dell’aggressione, Divjak fece esfiltrare da un deposito militare presso Kiseljak 120 pezzi di armi leggere e 20.000 proiettili alla Difesa Territoriale bosniaca. Per tale atto venne condotto alla corte marziale e condannato a 9 mesi di prigione. Ma il suo era stato un atto di fedeltà agli ideali jugoslavi, abbandonati dalla leadership di Belgrado, non un tradimento. Nel frattempo la Repubblica di Bosnia Erzegovina, il 1° marzo 1992, aveva dichiarato la propria indipendenza; la Difesa Territoriale ne divenne il neonato esercito (ARBiH), e Divjak uno dei comandanti, incaricato di contribuire alla difesa di Sarajevo contro l’offensiva jugoslava e serbo-bosniaca.

Nominato generale, dal 1993 al 1997 Divjak è stato vicecomandante dello stato maggiore dell’esercito della Bosnia ed Erzegovina, col compito di tenere i rapporti con l’amministrazione civile – l’unico non bosgnacco, assieme al croato Stjepan Šiber. Ma anche questo ruolo non era semplice. Se all’inizio della guerra c’erano il 18% di serbi e il 12% di croati tra le fila dell’esercito bosniaco, ben presto il loro numero era divenuto marginale. Di nuovo, in un atto di fedeltà all’ideale di una Bosnia Erzegovina multietnica, che rischiava di venir tradito dalla leadership politica del Partito d’Azione Democratica (SDA), Divjak se ne lamentò con Rasim Delić, allora capo di stato maggiore, così come con il presidente Alija Izetbegović. “E’ perché i soldati bosgnacchi non si fidano dei comandanti serbi”, gli fu risposto. Anche lui fu escluso da Delić dal processo decisionale, e in seguito congedato dall’esercito.

Ne 1994, a guerra ancora in corso, Divjak aveva fondato l’associazione Obrazovanje Gradi BiH (“L’istruzione costruisce la Bosnia Erzegovina”), cui si è poi dedicato fino alla fine. E’ stato il suo atto di fedeltà al futuro. Grazie a lui, oltre cinquantamila tra orfani di guerra, figli di veterani, famiglie povere e rom hanno ottenuto borse di studio per proseguire la propria formazione, anche nelle zone di campagna più colpite dal conflitto. “C’erano molte scuole distrutte; ho pensato che questa fosse la cosa giusta da fare”, spiegava nel 2017 a RSI.

Impegnato a favore della riconciliazione e della convivenza, Divjak si è sempre opposto alla divisione etnonazionale dei curriculum scolastici. “Ai bambini bosgnacchi viene spiegato che la guerra è stata un’aggressione, a quelli serbi che è stata una guerra civile e che l’aggressione è stata quella della NATO alla Serbia”. Un incontro con Divjak è entrato di rigore anche nei programmi di tutte le visite di studio a Sarajevo, e molti tra gli oltre settemila studenti italiani che hanno visitato la Bosnia Erzegovina dal 2003 a oggi hanno potuto incontrarlo – io tra questi.

A guerra conclusa, Divjak restò fedele alla verità, opponendosi alla manipolazione nazionalista e sottolineando come, a Sarajevo, i serbi come lui avessero sofferto per via dei bombardamenti di altri serbi, e che nessun crimine sistematico fosse stato pianificato contro di loro. Anche per questo, la leadership politica serba non lo amava. Nel marzo 2011, mentre si recava in Italia per un convegno, venne arrestato all’aeroporto di Vienna su un mandato di cattura della Serbia. La procura militare di Belgrado gli imputava la responsabilità dei fatti di via Dobrovoljačka, il 3 maggio 1992, quando un convoglio dell’esercito jugoslavo in ritirata fu attaccato dall’esercito bosniaco, dopo aver tentato di occupare il centro storico della città (nell’annunciarne la morte il giornale di Banja Luka, Nezavisne Novine, cita pressoché solo questo). Rilasciato su cauzione, Divjak dovette restare a Vienna fino a luglio, quando il tribunale austriaco riconobbe la mancanza di fondamento di ogni accusa di crimine di guerra e ne rifiutò l’estradizione, permettendogli così di rientrare nella sua Sarajevo. In quei mesi di esilio forzato, Divjak scrisse una memoria, Bečki dnevnik: Očekujući istinu i pravdu (Diario da Vienna: in attesa di verità e giustizia), pubblicata da Oslobodjenje, e ancora inedita in italiano.

Popolare e amatissimo nella sua Sarajevo (nei giorni scorsi il suo nome circolava ancora come possibile candidato sindaco), era facile incontrarlo per strada in centro o presso la sua casa in via Logavina, vicino a dove oggi sorge il Museo dell’Infanzia di Guerra. Rispondeva con umorismo “non chiamatemi generale, quelli sono tutti all’Aja”, preferendo l’appellativo di čika Jovo, zio Jovo.

Nel 2004 Divjak aveva pubblicato in francese un libro di conversazioni, Sarajevo Mon Amour, tradotto in italiano nel 2008 da Infinito Edizioni. Un suo contributo è incluso anche nel libro fotografico Shooting in Sarajevo, edito a fine 2020. Gariwo lo aveva inserito nella sua “foresta dei Giusti”.

Foto: Stav.ba

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Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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