Rimane ignoto, per il momento, l’autore dello sfregio sulla statua di Beneš, situata in piazza Loretánské davanti al ministero degli Esteri e non lontano dal Castello di Praga, “razzista e assassino di massa”. Il fatto risale a un paio di mesi fa, ma offre uno spunto per approfondire la questione delle reinterpretazioni storiche in atto in Repubblica Ceca e non solo.
Si rende necessaria una piccola digressione storica. Edvard Beneš è stato la mano destra del futuro presidenteTomáš Garrigue Masaryk nelle lunghe e complesse trattative internazionali durante la prima guerra mondiale, negoziati che hanno preparato il terreno per la creazione di uno stato ceco e slovacco. Insieme al generale slovacco Milan Ratislav Štefáník, è a questo trio di abili politici e convincenti persuasori che si deve la nascita nel 1918 della prima Repubblica cecoslovacca, libera e indipendente.
La guerra delle statue
Quanto accaduto alla sua statua è ascrivibile a un più ampio processo di contestazione e revisione del ruolo storico di alcuni grandi personaggi, finora ritenuti più o meno sacri e intoccabili. In tal senso, vale la pena ricordare, mutatis mutandis, i recenti casi praghesi del ritorno della Colonna Mariana in piazza della Città Vecchia e della rimozione della statua di Konev, generale dell’Armata Rossa che liberò la Cecoslovacchia dall’occupazione nazista, per poi schiacciare manu militari la rivoluzione ungherese del 1956. Da menzionare anche la decisione della città di Praga di intitolare la piazza antistante all’ambasciata russa all’oppositore politico Boris Nemtsov, ucciso nel 2015 non lontano dal Cremlino, cui le istituzioni russe hanno risposto spostando la sede ufficiale dell’ambasciata. O ancora: la provocazione di Pavel Novotný, l’eccentrico sindaco del comune alle porte di Praga di Řeporyje, il quale intende erigere un monumento a Vlasov, il generale dell’Armata Rossa che si ribellò a Stalin e combatté a fianco di Hitler per poi disertare anche quest’ultimo, che aiutò i praghesi nella Rivolta di Praga liberando la capitale prima dell’arrivo dei sovietici il 9 maggio del 1945.
Altra vittima illustre di bombolette spray anonime è stato anche Winston Churchill, che sulla statua nell’omonima piazza di Praga 3 si è visto scrivere “Black lives matter“, un rimando alle sue posizioni non propriamente progressiste in fatto di politica coloniale. Contestualmente nel mondo accadevano episodi simili: a Bristol la statua di Edward Colston, commerciante di schiavi del XVII secolo, è finita direttamente nel fiume; negli USA nel 2017 la rimozione di una stata equestre al generale sudista Lee ha scatenato scontri con addirittura tre morti; in Belgio molti vorrebbero riservare lo stesso destino ai numerosi monumenti del re Leopoldo II, noto per la crudeltà con cui provocò la morte di almeno 10 milioni di congolesi. Infine a Budapest, per tornare nell’Europa centrale, in un’operazione di stampo più squisitamente politico, Orban fa rimuovere la statua di Imre Nagy, eroe della succitata rivolta ungherese.
Il lascito di Masaryk
Tornando al caso in questione, se Masaryk fu il principale ideatore e fondatore del progetto cecoslovacco, Beneš ne fu il fedele comandante in seconda, per usare una terminologia marittima. Durante gli anni della cosiddetta Prima Repubblica (quella odierna sarebbe la settima, al lordo della divisone dalla Slovacchia) Beneš fu ministro degli Esteri tra il 1918 e il 1935 quando subentrò al padre fondatore della patria Masaryk, incapace di svolgere la carica per motivi di salute. Carica presidenziale che, però, ricoprì solo tre anni.
Infatti, all’indomani del famigerato accordo di Monaco che avrebbe consegnato nelle mani di Hitler tutti i Sudeti cecoslovacchi (con il beneplacito di Italia, Regno Unito e Francia), Beneš si dimise per riparare a Londra, dove guidò il governo cecoslovacco in esilio e la resistenza contro il nazismo. Rientrato in patria nel 1945, tornò in carica, anche questa volta solo per tre anni. Nel 1948 i comunisti presero il potere e Beneš, rifiutandosi di firmare la nuova costituzione comunista, si dimise una seconda volta. Morì due mesi dopo.
Un mostro sacro oggi criticato
Ogni più piccolo borgo o località abitata della Repubblica Ceca ha una sua via o piazza intitolata a Beneš. Assurto allo scranno di mostro sacro, benché di carattere chiuso e cupo (soffrì tutta la vita della sindrome di Ménière), oggi è il bersaglio di approcci più critici o apertamente ostili per il ruolo che ha svolto e l’eredità che ha lasciato.
Tra gli addebiti a suo carico vi sono l’avvicinamento all’URSS, con la firma dell’alleanza con l’Unione Sovietica nel 1935 in chiave antinazista, la decisione di non opporsi militarmente all’aggressione nazista e, nel 1948, quando già gravemente malato, respinse le dimissioni dei 14 ministri democratici che protestavano contro il colpo di mano comunista in corso.
Ma il suo nome rimane più noto soprattutto in relazione ai cosiddetti decreti Beneš, ovvero quegli strumenti legislativi con cui la Cecoslovacchia espropriò di fatto i beni dei suoi cittadini di etnia tedesca, abitanti dei Sudeti, costringendoli a trasferirsi in Germania, soprattutto in Baviera: li si puniva in tal modo per il loro appoggio al Partito tedesco filonazista dei Sudeti di Konrad Henlein. Il tutto, va detto, in un quadro postbellico internazionale più ampio, dove esodi del genere non erano rari nell’Europa centrale.
Quello dei decreti Beneš è ancora oggi, a 75 anni di distanza, un tema molto sensibile perché tocca uno dei nervi scoperti della nazione ceca. Da una parte il trauma evidentemente ancora vivo dell’occupazione nazista (1938-1945), dall’altra la coscienza di aver di fatto applicato la filosofia nazista della colpa collettiva a 2,2 milioni di tedeschi cittadini cecoslovacchi, di cui la stragrande maggioranza non si poteva dire direttamente collusa col nazismo. Un esodo che ha lasciato dietro di sé un lungo strascico di dolore, paura, sentimenti di rivalsa e rivendicazioni varie, nonché un duraturo elemento di latente conflittualità con un vicino politicamente ed economicamente importante come la Germania.
Fu il presidente Václav Havel a firmare nel 1997 la Dichiarazione ceco-tedesca nel tentativo di mettere fine consensualmente a questa ferita ancora aperta. Progetto evidentemente non del tutto riuscito, soprattutto se pensiamo che, invece, l’attuale presidente Miloš Zeman ha addirittura vinto le sue prime elezioni presidenziali dicendo ai cechi che il suo temuto avversario, il principe Karel Schwarzenberg, discendente di un’antica casata tedesco-boema, avrebbe annullato in caso di vittoria i decreti di Beneš, esponendo i cechi a un’improbabile ondata di rivendicazioni patrimoniali degli eredi degli sfollati di allora. Notizia assolutamente falsa e infondata, mai pronunciata né confermata dal diretto interessato, ma tanto bastò forse a influire sulla vittoria a Zeman in uno scontro fino a quel momento alla pari.
Il caso del vandalismo alla statua di Beneš non è stato ancora chiuso, ma rimane aperta la domanda se anche il suo non sia uno dei tanti miti del XX secolo da rivedere e ridimensionare. Civilmente e senza bombolette, ça va sans dire.
Foto: Statua di Edvard Beneš. Foto di Jan Rufer