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BIELORUSSIA: L’unione con Mosca non s’ha da fare

Il 2 aprile 1996 il presidente russo Boris El’cin e l’omonimo bielorusso Aleksander Lukašenko firmavano a Minsk il primo di quella che sarebbe stata poi una serie di accordi che proclamavano l’intenzione di avvicinare i due paesi, non solo a parole. È stato definito negli anni un vero e proprio Anschluss silenzioso, denunciato da più parti e da più volti noti, compreso il premio Nobel Svetlana Aleksievič. Dal 1996 la giornata del 2 aprile è stata proclamata ufficialmente “giorno dell’unità dei popoli di Bielorussia e Russia”; eppure, di concreto rispetto all’accordo allora firmato dai due capi di Stato, si è in fondo realizzato poco.

Il documento, inizialmente amorfo nei contenuti, nel 1999 ha preso contorni progettuali più precisi: l’8 dicembre di quell’anno Minsk e Mosca siglarono l’Accordo per la creazione di un’Unione statale, un importante fondamento politico e giuridico ratificato dai parlamenti dei due paesi nel gennaio del 2000. La “confederazione” russo-bielorussa si sarebbe dotata di un parlamento bicamerale, di una Costituzione, di organi giudiziario e fiscale, di una valuta emessa da un unico centro decisionale e operativo. Da allora, tuttavia, l’interesse si è spostato in fretta dal piano politico-amministrativo a quello prettamente economico.

Una spada di Damocle per Minsk

L’accordo siglato nel 1999 si è rivelato una spada di Damocle sospesa sopra Minsk. Al momento della firma, la situazione politico-economica e le relazioni tra i due paesi erano ben diverse rispetto a oggi (e Lukašenko poteva anche sognare, volendo, di divenire presidente di questa novella “confederazione” post-sovietica). Ora quell’accordo è una carta ingiallita che dopo vent’anni mostra sempre più i suoi limiti.

Se un segnale di interesse verso il progetto è stata l’apertura dei confini tra i due paesi, l’emergenza Coronavirus ha recentemente dimostrato chi detta nella pratica le regole quando l’amicizia tra popoli odora di retorica: Mosca il 16 marzo ha prontamente sigillato in maniera unilaterale le frontiere con il vicino occidentale, scatenando una dura risposta dal presidente bielorusso, che ha commentato: “Come possono prendere decisioni simili? Senza prima consultarsi con noi, presentando tutto a cose fatte”. L’osservazione di Lukašenko in fondo è corretta: all’interno di una simile Unione statale che speranze può avere Minsk di venire interpellata in questioni non solo secondarie, ma centrali e d’emergenza come quella presente?

Da un’Unione statale a un’Unione economica?

La testata russa Kommersant a settembre dello scorso anno pubblicava un articolo in cui rivelava, sulla base di fonti governative russe, le nuove forme assunte dal progetto confederale. Si tratta in primo luogo di una svolta prettamente di carattere economico che rispecchia le nuove priorità delle cancellerie: si prevede infatti la creazione de facto di un’entità statale confederale dotata di un unico codice civile e sistema fiscale, con un’unica politica economica, doganale, energetica. Nessun accenno invece alle politiche sociali, alla difesa, agli organi giudiziari, alla sicurezza. Tali punti sarebbero stati probabilmente discussi nel corso dell’incontro del consiglio dell’Unione statale fissato l’8 dicembre 2019 a Mosca, che però è stato annullato dai due capi di Stato. Incontratisi a Soči il 7 dicembre, Putin e Lukašenko pare non abbiano raggiunto alcun risultato dal loro scambio e non hanno rilasciato dichiarazioni.

Il tiro alla fune tra Mosca e Minsk

È in fondo da qualche anno che Lukašenko ha alzato i toni nelle trattative con Mosca, attitudine che non esclude un suo calcolo elettorale o, piuttosto, geopolitico. O, ancora, meramente economico: non avendo raggiunto un accordo sul prezzo del petrolio, dal 1 gennaio di quest’anno i rifornimenti dalla Russia sono calati del 77% nel primo trimestre e Minsk è costretta a comprare da altri mercati. Tra le due capitali si tende allora la corda e Mosca tira forte verso una reale implementazione degli accordi del 1999, verso la creazione dell’entità statale confederale che finirebbe senza dubbio per fagocitare la Bielorussia.

La strategia del Cremlino risponde anche alla volontà di non lasciare il vicino cedere troppo facilmente al fascino di altri concorrenti internazionali. Lukašenko non ha esitato a definire tutto ciò un “ricatto” che minaccia la “sacra indipendenza” del suo paese: “capisco l’antifona: prendetevi il petrolio, ma cancellate il vostro paese ed entrate a far parte della Federazione russa”, affermava nel 2018. “A chi cacchio serve una tale unione?”, esclamava intervistato il giorno delle elezioni parlamentari dello scorso anno, scusandosi poi per il suo parlare grezzo, “alla contadina”.

Nemmeno i bielorussi, come almeno apparentemente il loro presidente, sono interessati al progetto e a dicembre ci sono state anche alcune manifestazioni di protesta e petizioni a riguardo. L’8 dicembre in 700 hanno marciato da piazza Oktjabr’skaja al consolato russo di Minsk.

Intanto, a inizio aprile Minsk ha rivolto ufficialmente a Mosca una richiesta di aiuto e supporto per far fronte all’emergenza Covid-19: è infatti stata annunciata il 31 marzo la prima vittima bielorussa. Solo qualche giorno prima il presidente Lukašenko definiva il virus tutt’al più una “psicosi” e la quarantena non è ancora stata introdotta nel paese. Le elezioni presidenziali che potrebbero con tutta probabilità confermare a fine agosto nuovamente il capo di Stato al potere (ininterrottamente dal 1994) pare non verranno posticipate.

Chi è Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica presso l'Università di Udine, è direttrice editoriale di East Journal e scrive principalmente di Russia.

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