antifascisti
Un momento del processo ai sette attivisti russi.

RUSSIA: Il regime di Putin tortura e condanna gli antifascisti

Lo scorso 11 febbraio a Penza, città sul fiume Sura a oltre settecento chilometri da Mosca, si è concluso il processo contro un gruppo di attivisti antifascisti russi accusati di terrorismo. Le pene comminate agli attivisti coinvolti nel caso Set’ (La Rete) sono pesantissime: Dmitrij Pčelintsev è stato condannato a 18 anni di carcere, Il’ja Šakurskij a 16 anni, Andrej Černov a 14 anni, Maksim Ivankin a 13 anni, Michail Kulkov a 10 anni, Vasilij Kuksov a 9 anni e Arman Sagynbaev a 6 anni.

Antifascisti alla sbarra

Il processo contro i sette attivisti è iniziato con il loro arresto nell’ottobre 2017. I servizi segreti russi (FSB) hanno accusato i sette di aver organizzato una serie di attentati terroristici per rovesciare il governo e di aver costituito una organizzazione denominata Set’ (La Rete) con l’intento di strutturare una rete di gruppi armati reclutando singolarmente individui che condividessero l’ideologia anarchica dei fondatori dell’organizzazione. Sempre secondo l’FSB, Set’ avrebbe avuto cellule attive a Mosca, San Pietroburgo, Penza e in Bielorussia.

I sette attivisti sono stati detenuti fino ad oggi tra Penza, San Pietroburgo e Mosca, e durante tutto il processo hanno sottolineato la propria innocenza. Secondo la difesa i sette sarebbero sì degli attivisti antifascisti, e alcuni di loro condividerebbero l’ideologia anarchica che, peraltro, in Russia è perfettamente legale. Ma si tratterebbe soltanto di un gruppo di persone che condividono gli stessi ideali e si ritrovano occasionalmente: l’esistenza stessa di una organizzazione sarebbe una montatura del FSB per dare basi più solide all’accusa di attività terroristica. E in effetti le prove a carico dei sette – almeno per quanto riguarda l’accusa di terrorismo – sono estremamente deboli: detenzione di stupefacenti, della quale due di loro si sono dichiarati colpevoli ma che non ha alcuna correlazione con attività terroristiche; detenzione illegale di armi, che però al di fuori dei grandi centri abitati, in Russia, è un fatto abituale (si tratta, tendenzialmente, di armi da caccia); il possesso di libri considerati sovversivi, come opere di alcuni autori anarchici, tra cui Michail Bakunin, e Il Capitale di Karl Marx. Ciononostante alcuni giorni fa la spada di Damocle della legge russa si è abbattuta sul capo dei sette attivisti, con condanne pesantissime. Un centinaio fra parenti dei sette, amici e attivisti presenti in aula ha accolto la sentenza con rabbia, gridando “Vergogna!” e “Libertà!” all’indirizzo della corte.

Un caso politico. Le denunce di tortura

Memorial, una delle storiche organizzazioni per i diritti civili da decenni attive in Russia, ha definito il caso una montatura del governo a fini politici. “È ovvio” ha dichiarato il rappresentante dell’associazione “che il processo contro gli attivisti antifascisti a Penza, parte di una serie di misure repressive contro anarchici e antifascisti cresciute esponenzialmente tra il 2017 e il 2018, sia politicamente motivato.” E ancora: “si tratta di un verdetto mostruoso, ma non ci aspettavamo nulla di diverso”.

Quattro tra gli arrestati hanno inoltre denunciato i essere stati sottoposti più volte a tortura durante la detenzione. Dmitrij Pčelintsev ha dichiarato al procuratore Oleg Zajtsev di essere stato picchiato dagli agenti del FSB che lo hanno arrestato all’uscita della casa di sua madre. Gli agenti gli hanno preso le chiavi di casa, dove hanno fatto irruzione pochi minuti dopo, e lo hanno portato in prigione. Dal giorno successivo ha subito diverse sedute di elettroshock: per sottrarsi alle torture ha anche tentato di procurarsi delle ferite tagliandosi braccia gambe nella sua cella. Anatolij Vachterov, avvocato di Il’ja Šakurskij, ha raccontato che il suo assistito durante un interrogatorio gli avrebbe passato un biglietto con scritto “sono stato pestato”.

Anche altri detenuti potrebbero essere stati torturati, anche se non hanno denunciato le percosse. Igor Šiškin, un altro attivista coinvolto nel processo, avrebbe inviato una lettera a Aleksander Rodionov, capo dell’ufficio dell’FSB di San Pietroburgo, assicurando di essersi procurato da solo le ferite sul corpo mentre faceva sport. Ma i medici hanno rilevato la frattura della parete occipitale dell’occhio destro e numerose bruciature e abrasioni, ferite che non sembrano essere esattamente compatibili con una partita di calcio o un mezzofondo. Inoltre, i membri della Commissione di monitoraggio dello stato di salute dei detenuti che hanno visitato Šiškin durante la detenzione hanno confermato la presenza di ferite sul suo corpo compatibili con quelle lasciate dai fili per l’elettroshock.

Torture, queste, che potrebbero replicarsi anche nei prossimi mesi, durante la detenzione dei sette attivisti, molti di loro a regime duro. È questa una delle preoccupazioni principali dei familiari delle vittime, che hanno rilasciato numerose dichiarazioni al portale meduza.io, auspicando una mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale. E proprio contro la tortura dei sette condannati si è mobilitato un folto gruppo di psicologi russi, che in una lettera aperta hanno lanciato una raccolta firme, poiché “nel ventunesimo secolo non possono verificarsi ancora torture e sentenze disumane con una base probatoria così debole, strutturata quasi esclusivamente su parziali confessioni estorte sotto tortura”. E mentre in tutta la Russia si organizzano iniziative in solidarietà con i condannati, tra cui una protesta organizzata da numerose librerie indipendenti, il tribunale di Penza ha concesso la possibilità di tenere un processo d’appello.

foto theguardian.com

Chi è Davide Longo

Nato nel 1992, vivo e lavoro a Varese. Sono laureato in Scienze Storiche all'Università degli Studi di Milano, ho studiato lingua e cultura cinese e ho trascorso un periodo di studio all'Università di HangZhou, Zhejiang, Repubblica Popolare Cinese. Oggi sono docente di Italiano e Storia nella scuola secondaria di primo grado. Appassionato di storia e politica sia dell'Estremo Oriente, sia dei Paesi dell'ex blocco orientale, per East Journal scrivo di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, senza disdegnare i Balcani (concepiti nel senso più ampio possibile). Ho scritto per The Vision e Il Caffé Geopolitico e sono autore di due romanzi noir: Il corpo del gatto (Leucotea, 2017) e Un nido di vespe (Fratelli Frilli, 2019).

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