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RUSSIAGATE: Le ombre di un oligarca dietro lo scandalo

Lo scorso 28 gennaio, il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti ha deciso di revocare le sanzioni a tre società industriali russe. Nonostante l’opposizione della Camera, il pressing di Trump e della maggioranza repubblicana al senato è riuscito – non senza polemiche – a far passare la mozione e renderla effettiva. Le sanzioni americane, ben lungi dalla cessazione o da un eventuale ammorbidimento, hanno quindi graziato il gigante dell’alluminio RusAl, secondo produttore al mondo, e le compagnie energetiche EuroSibEnergo ed En+– tutte accomunate, sino al 2018, dal controllo diretto del magnate russo Oleg Deripaska, una figura in controluce che pare essere coinvolta nello scandalo del Russiagate.

Chi è Oleg Deripaska?

Arricchitosi a tempo di record negli anni ’90, nell’epoca sregolata delle privatizzazioni, grazie a incredibili movimenti speculativi nel mercato delle risorse minerali, Deripaska ha poi fondato il gruppo industriale Basic Element, instaurando rapporti preferenziali con l’establishment politico-industriale moscovita. Nel 2004, il magnate è stato cooptato all’interno del Consiglio consultivo per il business e la cooperazione economica Asia-Pacifico (ABAC) tramite nomina presidenziale. Dal 2007 è inoltre vicepresidente dell’Unione russa degli industriali e imprenditori – equivalente della nostra Confindustria – nonché presidente della Camera internazionale del commercio e di svariate altre agenzie governative.

Incredibilmente danneggiato dalla crisi del 2007-08 e dalle sanzioni americane del 2014, che hanno più che dimezzato il suo enorme patrimonio finanziario, l’oligarca russo-cipriota aveva già avuto problemi con le autorità statunitensi. Accusato di essere coinvolto nei traffici criminali delle “Guerre dell’Alluminio” negli Anni ’90, gli fu negato il visto statunitense già nel 1998. Nonostante le nette smentite da parte del suo entourage, Deripaska non fu in grado di recarsi regolarmente negli Stati Uniti fino al 2009, quando l’avvocato e lobbista statunitense Adam Waldman, pagato oltre 40mila dollari al mese dall’oligarca per assisterlo legalmente nella procedura di ottenimento di visti e permessi commerciali, riuscì a persuadere le autorità competenti.

Come se ciò non fosse bastato a gettare ombra sulla sua figura, nel 2016 l’oligarca è finito nell’occhio del ciclone. Tacciato da Aleksej Navalnyj di aver corrotto il vice-primo ministro russo Sergej Prichodko, paparazzato sullo yacht di Deripaska a discutere delle incombenti elezioni americane, il magnate è stato sottoposto al regime sanzionatorio di Washington. Secondo il rapporto Horowitz, l’oligarca sarebbe infatti uno dei principali indiziati nello scandalo Russiagate.

Le ombre dello scandalo Russiagate

Nello specifico, il nome di Oleg Deripaska è stato ripetutamente collegato a quello di Paul Manafort, responsabile della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016 e già collaboratore del tycoon in Ucraina tra il 2005 e il 2009. Secondo i documenti del dossier incriminato, Manafort, oggi in carcere per frode fiscale e intralcio all’inchiesta giudiziaria del procuratore generale Robert Mueller, avrebbe ricevuto 10 milioni di dollari da un fondo d’investimento dell’oligarca vicino al Cremlino.

A seguito di tutto ciò, Deripaska era infine stato “costretto”, lo scorso aprile, a dimettersi dal CdA di En+ e ridurre le sue quote di partecipazione azionaria in RusAl dal 70% a poco meno del 45%. Il temporaneo passo indietro del magnate della città di Dzeržinsk, almeno per il momento, ha permesso al colosso nato dall’entente con Roman Abrahamovič di sopravvivere a un periodo di gravi ristrettezze di bilancio.

A quanto pare, però, i capitali personali di Deripaska, ritenuto coinvolto “nelle attività nocive del Cremlino e nel tentativo di sovvertire la democrazia occidentale”, rimarranno tuttavia bersaglio delle sanzioni statunitensi, imposte lo scorso aprile a 23 imprenditori russi accusati di “minacciare la vita dei rivali in business, avere intercettato illegalmente un funzionario governativo, e aver partecipato in episodi di estorsione e racket”.

In aggiunta, i deputati democratici avversi all’iniziativa presidenziale hanno ritenuto insufficienti le misure imposte a Deripaska per aggirare le sanzioni, meri pro forma incapaci di modificare sostanzialmente gli assetti societari delle tre compagnie. Come sottolineato dai deputati dell’opposizione, infatti, il magnate russo sarebbe ancora in controllo indiretto della maggioranza assoluta degli stock azionari grazie alle quote affidate all’ex moglie Polina e all’ex suocero Valentin Jumašev, direttore dell’amministrazione presidenziale all’epoca di Boris Eltsin.

Un tentativo di aggirare le sanzioni?

La revoca delle sanzioni ai tre colossi industriali russi, pur non modificando sostanzialmente la linea d’azione statunitense verso la Russia, rinforza dunque i sospetti sul legame – più o meno evidente – instaurato dal Cremlino con numerose forze politiche, tra le quali figurano numerosi partiti europei e la cosiddetta “internazionale sovranista” di Donald Trump e Mike Pence.

Come affermato dal procuratore generale Rober Mueller, a capo dell’indagine speciale sullo scandalo Russia-Gate, gli esiti del rapporto finale “non concludono che il presidente abbia commesso un crimine, né, tuttavia, lo esonera”. Pertanto, la contro-inchiesta che prenderà piede nei prossimi mesi, insieme a quanto prospettato dallo stesso Mueller – ossia che Trump possa essere incriminato allo scadere del mandato – lascia intuire che in un futuro non troppo prossimo venga gettata nuova luce sulla vicenda.

Immagine: express.co.uk

Chi è Guglielmo Migliori

Bolognese classe 1996, laureato in Relazioni Internazionali e Studi Est-Europei con un focus sulla sicurezza energetica. Ha studiato a Bologna, Maastricht, Mosca, e San Pietroburgo. Dopo aver lavorato a Belgrado nel settore commerciale, si è trasferito a Vienna per lavorare nel campo delle relazioni internazionali e della sicurezza energetica.

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