E se l’est Europa fosse stufo di imitare?

Nel recente saggio The light that failed. A reckoning (Allen Lane, 2019, 256 pp.) i politologi Ivan Kraestev e Stephen Holmes hanno cercato di spiegare i motivi del travolgente sviluppo di movimenti “populisti”, nazionalisti e sovranisti nell’Europa centro-orientale, proponendo un’interpretazione alternativa. L’ascesa di personaggi come Orban e Kaczynski sarebbe figlia prima di tutto di un senso di generale frustrazione da parte degli europei orientali, studi di dover rincorrere un modello politico ed economico irraggiungibile, ritenuto poco adatto alle peculiarità locali.

La frustrazione di chi copia

Dopo il 1989, ai paesi dell’ex blocco comunista venne di fatto imposto un unico modello di sviluppo: la democrazia liberale di stampo occidentale, che avrebbe fatto da cornice ad un’economia capitalista. Il passato doveva essere accantonato per costruire quanto prima un sistema politico che ricalcasse quello degli stati più sviluppati del continente, basato su un efficiente sistema di pesi e contrappesi, libere elezioni e libertà d’impresa. La costruzione di suddetto modello era propedeutica all’ingresso dei paesi dell’area nelle grande organizzazioni internazionali (NATO, UE) e, soprattutto, agli aiuti economici provenienti da ovest. Negli anni ’90 paesi come Ungheria e Repubblica Ceca ricevettero un maggiore sostegno economico proprio in virtù della loro manifesta volontà di adeguarsi all’archetipo imposto da ovest; soldi che non arrivarono invece in Romania che, al contrario, fino al 1996 fu guidata da una cricca di ex comunisti poco disposti a smantellare l’eredità rossa. Fu la vittoria dell’europeista Emil Constantinescu alle elezioni presidenziali del 1996 ad aprire le porte del paese carpatico al grande capitale occidentale. Il messaggio era chiaro: “i soldi arriveranno solo a chi cerca di assomigliarci sempre di più“. 

Un modello non solo politico-economico

L’accettazione di un paradigma politico ed economico presupponeva anche l’accoglimento di un paradigma culturale. Non si poteva forgiare una vera democrazia liberale occidentale senza interiorizzarne le basi ideali: multiculturalismo, laicità, rispetto delle minoranze etnico-linguistiche, attenzione alle problematiche di genere. Oltre all’imitazione politica, le élite polacche, ungheresi, ceche, romene, bulgare, si impegnarono in una vera e propria imitazione culturale, cercando di “istruire” il loro popolo al liberalismo. Agli europei orientali venne detto che una società troppo religiosa non corrispondeva ai tempi, che il matrimonio non era necessariamente eterosessuale e che anche l’identità sessuale può essere fluida; venne detto che il multiculturalismo è un valore universale, mentre il nazionalismo un male da combattere. Il tutto sotto i vigili occhi dell’ovest, pronto a bacchettare eventuali deviazioni dal percorso intrapreso dopo l’89. Non era quello l’occidente che ad est avevano tanto ardentemente sognato in più di 40 anni di dittatura: esso non era un mondo anarchico caratterizzato da promiscuità sessuale, secolarismo e anti-nazionalismo, ma uno spazio di libertà e “normalità” anti-comunista. E’ nello iato esistente tra le aspettative e la realtà che i populisti hanno origine. Essi sarebbero figli della frustrazione nata dalla costante imitazione di un modello politico e culturale che a ungheresi, polacchi, cechi e compagnia cantante non piace per niente. Secondo Kraestev e Holmes, Orban e Kaczynski si sarebbero fatti portavoce di questo malcontento, rivendicando non solo la pari dignità delle tradizioni locali, ma addirittura la loro superiorità. E’ l’ovest ad aver tradito la cultura europea e le sue origini cristiane, di cui Ungheria e Polonia sono gli ultimi strenui difensori. I populisti sono figli del complesso di inferiorità, dello sgomento di chi cerca di raggiungere un’asticella troppo alta senza riuscirci e quindi cerca rifugio nelle sue piccole certezze.

Imitare l’ovest, un problema antico

Sebbene presentata in modo accattivante, la teoria di Kraestev ed Holmes non rivela niente di nuovo. Il problema dell’imitazione e dei modelli di sviluppo degli stati della regione è secolare. Potremmo tornare alla Russia di Pietro il Grande e alla grande contrapposizione tra occidentalisti e sostenitori dell’unicità russa; potremmo citare la colossale opera di imitazione istituzionale e giuridica portata avanti da tutti i paesi dell’Europa centro-orientale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando intere leggi vennero esclusivamente tradotte dal francese o dal tedesco in romeno, serbo-croato, ceco, bulgaro. Anche all’epoca, il principio era lo stesso di oggi: imitare per avvicinarsi, per ottenere aiuti economici e sostegno politico, per contare qualcosa. Anche allora, come funghi, emersero da destra grandi oppositori. Il grande dilemma dell’imitazione non nasce nel 1989: è una costante della contemporaneità dell’Europa orientale, sintomo di quella sindrome dei piccoli paesi che non sanno esattamente quale sia il loro posto del mondo. Nel nazionalismo, essi hanno trovato un palliativo da una condizione di perenne sottosviluppo e arretratezza e, durante il comunismo, un rifugio da una realtà imposta dall’esterno. Lo capirono persino gli stessi comunisti, che dopo i terribili anni dello stalinismo iniziarono a declinare il loro personale marxismo in modo sempre più patriottico e identitario, per non perdere completamente il sostegno delle masse. L’Europa orientale non deve lenire i sensi di colpa che hanno attanagliato per decenni la Germania, che nell’identità post-nazionale dell’UE ha trovato il suo nirvana. Un nirvana fittizio, che dietro i lodevoli appelli all’unione nella diversità continua a perseguire obiettivi eminentemente nazionali e nazionalisti

Non nasce tutto dopo l’89

Alla trattazione di Kraestev e Holmes manca una prospettiva di lungo periodo, che rintracci nel lontano passato l’origine di certi mali odierni; pecca tipica di molti analisti e geostrateghi, che tendono a cercare nel passato recente la causa di fenomeni troppo complessi per essersi forgiati in appena 30 anni. I continui richiami di Orban al passato, alla ferita del Trianon e al cattivo occidente sono indice di qualcosa di più grande di un uso strumentale della storia. Rimandano altresì ad un senso di diffidenza secolare, che nasce dall’impotenza politica, dall’irrilevanza internazionale, dal paternalismo dei più forti. I social-democratici romeni che per anni hanno fatto vanto del loro euroscetticismo, hanno usato stratagemmi retorici già di moda nella seconda metà dell’Ottocento. L’idea malsana della sincronizzazione ad ogni costo trascende i populisti odierni; essa  tormentava gli est europei già 100 anni fa. Lo sviluppo del capitalismo nel continente ha creato muri ben più difficili da abbattere di quello di Berlino; tutti hanno voluto godere dei benefici del mercato, ma alcuni ne hanno goduto più, e alcuni non ne hanno goduto affatto. Tra XIX e XX secolo gli est europei, ancora profondamente rurali, hanno cercato di imitare l’ovest politicamente perché pensavano di potersi arricchire allo stesso modo. E allora come oggi, spregiudicati avventurieri della politica un po’ per opportunismo, un po’ per convinzione, si son fatti portavoce di chi è rimasto indietro, di chi non riusciva a tenere il passo e, soprattutto, di chi non voleva tenere il passo. Kraestev e Holmes hanno ragione quando sostengono che la perenne imitazione crea un senso di frustrazione crescente nell’imitatore, che nonostante gli sforzi difficilmente riesce a riprodurre alla perfezione il suo modello. I due analisti correttamente vedono proprio nella frustrazione di chi imita la causa principale del populismo odierno; ma questa frustrazione non è un prodotto del 1989 e della transizione post-comunista.

Oggi, i primi a non voler abbandonare il sistema capitalista occidentale sono i populisti, che da quel sistema traggono cospicui aiuti economici, senza i quali i loro paesi collasserebbero. Pertanto, l’analisi del passato serve di più a comprendere il loro elettorato, le pulsioni delle periferie e delle campagne, per abbandonare l’ormai trita e ritrita manfrina del nazionalismo inevitabile e del quasi naturale tendenza estremista dei nostri cugini dell’altra Europa. 

foto: hiveminer.com

Chi è Francesco Magno

Ha conseguito un dottorato di ricerca in storia dell'Europa orientale presso l'università di Trento. E' stato assegnista di ricerca presso la medesima università. Attualmente insegna storia dell'Europa orientale presso l'università di Messina. Si occupa principalmente di storia del sud-est europeo, con un focus specifico su Romania, Moldavia e Bulgaria.

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