“Una mappa per Kaliningrad”: Viaggio tra storia e letteratura nella città “russa” di Kant

Kaliningrad, Königsberg, Królewiec, Kunnegsgarbs, Karaliaučius, Kenigsberg, o ancora la «città di K.» della Cartolina di Iosif Brodskij, più volte citata nel volume della traduttrice e slavista Valentina Parisi, Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte, edito da Exòrma (2019), dedicato all’exclave russa dai mille nomi e geografie.

In un territorio incastonato tra Lituania e Polonia, sorto alla fine della seconda guerra mondiale a tavolino, come ricordano i confini, tracciati «probabilmente col righello» da una mano che «deve aver tremato in un paio di punti» (p. 84), la città oggi russa, russissima, porta ancora il nome sovietico di Kalinin, un caso più unico che raro nella Russia post-sovietica. Come aveva notato a suo tempo Milan Kundera, citato da Parisi, «“Kaliningrad non è stata e non sarà più ribattezzabile” (…). Nel punto identificato dalle coordinate geografiche 54.70, 20.51 non esiste infatti un passato russo antecedente al 1945 al quale far ritorno. Revocare il toponimo sovietico com’è avvenuto pressoché ovunque (la città di Togliatti è una delle poche eccezioni) significherebbe ammettere che Kaliningrad è costruita su una tabula rasa e deve la sua origine alla distruzione della città tedesca che la precedeva» (p. 91).

Kaliningrad era allora una tabula rasa tesa tra i concetti di lieu ed espace, oggetto di un «esperimento di ingegneria sociale volto al futuro» (p. 129) nel quale doveva essere volutamente assente il «colore locale» (p. 130), «perché i coloni potessero identificarla come la loro patria lontana», perché «l’impersonalità diventava paradossalmente presupposto per una nuova auto-identificazione» (p. 131). Kaliningrad è il «risultato di un’operazione di displacement determinata dallo slittamento dei confini» (p. 96).

Valentina Parisi conduce il lettore in un viaggio per immagini, odori, profumi che nasce in realtà da un motivo personale, famigliare: «non c’era Natale senza vitel tonné, né vitel tonné senza vaschette, e le vaschette non potevano essere servite in tavola senza che mio nonno evocasse la parola Königsberg e “gli altri due Natali”, quelli passati a Königsberg senza vitello tonnato» (p. 27). Due Natali passati più precisamente al lager Stalag 1A di Stablack come accaduto a molti altri internati militari italiani, sulla cui storia si sofferma a lungo e nel dettaglio Parisi nella prima parte del volume. A Stablack il viaggio si conclude, mentre della città di Immanuel Kant ed Hannah Arendt restano una serie di cartoline, di immagini in bianco e nero fatte di parole, storie, ma anche vere e proprie fotografie (d’archivio e non) che accompagnano a intarsio la narrazione di Parisi.

Della città sentiamo gli odori, le voci e i silenzi, il rumore degli autobus. La osserviamo da Danzica, da Berlino, da Vilnius, ne respiriamo l’aria leggendo i versi, le parole che ha ispirato. È la città di K. di Brodskij e quella del suo collega e amico lituano Tomas Venclova. È una città che è una mappa sbiadita di se stessa, a un tempo eterea e materiale come quella che accompagna concretamente la narratrice in viaggio fino alla fine, dove sfuma nei ricordi, nei pensieri e nelle emozioni della narratrice.

Chi è Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica presso l'Università di Udine, è direttrice editoriale di East Journal e scrive principalmente di Russia.

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