RUSSIA: Perché Medvedev sta con le Pussy Riot

Le Pussy Riot non dovrebbero essere in carcere. Parola del primo ministro russo, Dimitri Medvedev. ”Io non le avrei messe in galera se fossi stato un giudice – ha detto -. Semplicemente non ritengo giusto che scontino pene detentive. Sono gia’ state in prigione abbastanza a lungo”. Dichiarazioni che suonano come una sfida al presidente Vladimir Putin, ma perché Medvedev sta con le Pussy, malgrado grande parte dell’opinione pubblica ritenga giusta la pena inflitta alla punk band? A chi parla Dimitri?

Un putinismo senza Putin?

Medvedev piace ai ceti medi nati grazie al putinismo, come piace ai nuovi tycoon dell’energia e dei media, che senza rinnegare il valore della politica di Putin vorrebbero però un ricambio. Un putinismo senza Putin, insomma. Ma scalzare lo zar Vladimir non è cosa facile, benché il suo potere sia già stato messo già in discussione quando, il 23 settembre 2011, egli annunciò di voler tornare sulla poltrona di Presidente, allora occupara dal “delfino” Medvedev, con quello che sembrò un arrocco. Medvedev, che negli anni al Cremlino si era in parte affrancato da Putin, veniva così relegato allo scomodo ruolo di primo ministro: scomodo perché alla guida di un partito allo sfascio, Russia Unita, che avrebbe di lì a poco affrontato le elezioni parlamentari, poi vinte.

I malumori per “l’arrocco” portarono il ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, a criticare apertamente, durante una riunione al G20, la mancanza di rinnovamento politico in Russia determinata dal potere di “Putin l’eterno“. A seguito di quelle dichiarazioni fu costretto a dimettersi. Stessa sorte per il presidente del Senato, Serghei Mironov, leader del partito d’opposizione Russia Giusta: anche lui aveva osato criticare il ritorno dello zar.

Medvedev, che molti dei “nuovi ricchi” e della “middle class” metropolitana avrebbero visto come degno successore a Putin, continuò la sua politica del basso profilo limitandosi a piccole ma significative prese di distanze dall’operato dello zar. Piccole ma sufficienti a far passare il suo messaggio: “Con me la Russia sarebbe diversa”.

La Russia di Medvedev

E quale sarebbe la Russia di Medvedev? Nel gennaio 2011, al World economic forum di Davos, l’allora presidente Dimitri Medvedev fece un discorso memorabile: «La Russia è spesso criticata, talvolta meritatamente, per la corruzione del sistema giudiziario, per la difficoltà nel costruire uno Stato di diritto, per la lenta modernizzazione dell’economia. Noi siamo impegnati su questi fronti e li vogliamo coniugare alla crescita della qualità della vita in Russia. […] Sono convinto che la crescita della democrazia possa contribuire alla modernizzazione economica».

Serghei Lavrov, ministro degli Esteri, sul Russian Newsweek del 10 febbraio 2010 ha dichiarato: «[con L’Europa] vogliamo costruire un rapporto di interdipendenza e reciproca penetrazione economica e culturale». Tradotto in soldoni si tratta di 87 mld di euro di esportazioni dall’Europa (6,5% del totale) e 155 mld di importazioni (10,4% del totale). In questo contesto, nel maggio 2010 a Rostov sul Don, Russia ed Unione Europea lanciano una “partnership di modernizzazione”.

La sfida della modernizastya

La “crescita della democrazia” auspicata da Medvedev non è certo un’apertura al pluralismo. Essa si esaurisce più che altro nell’inserimento di elementi di liberismo, quindi di libera concorrenza, individualismo e iniziativa privata, nell’economia russa ancora (troppo?) ancorata al capitalismo di Stato. Non a caso ha detto: “sono convinto che la crescita della democrazia possa contribuire alla modernizzazione economica”. Medvedev non ha studiato alla scuola di Atene. Il suo progetto si scontra però con le poco incoraggianti previsioni sullo sviluppo economico russo nel prossimo decennio.

Le prospettive di crescita economica sono infatti meno rosee del previsto: il Pil russo è sceso del 7,9% tra il 2008 e il 2009 (il dato peggiore del G20). Un dato che, come ricorda Philip Hanson in The economic development of Russia: between state control and liberalisation (ricerca del 2010 finanziata dal Ministero degli Esteri italiano), non si deve alla crisi del petrolio poiché altri Paesi che sono importanti esportatori di oro nero hanno subito un declino molto modesto. La ripresa è stata finora timida, solo un 4% di crescita del Pil nel 2010 con un outlook del Fmi che prevede il 3,2% medio annuo fino al 2020. In questo contesto “l’arrocco” di Putin sembra essere l’estremo tentativo di riportare il timone a barra. Ma la sfida tra Putin e Medvedev, che si gioca anche su piani come quello sociale, è anche la sfida tra due modelli di Russia: quella asiatica e quella europea. L’idea di modernizzazione attraversa come un fil-rouge la storia russa, e si è evoluta nella contrapposizione tra “occidentalisti” e “slavofili”. Così Medvedev “l’europeo”, Medvedev “il democratico”, non rinuncia a dire la sua anche su una questione (per lui) marginale come quella delle Pussy Riot. E lo fa per riaffermare la propria diversità.

Una diversità apparente poiché un “putinismo senza Putin” non è detto che sarebbe meglio dell’attuale sistema di potere, e crescita dell’economia in senso liberale non fa per forza rima con crescita democratica. La ricorsa alla “modernizzazione” (modernizastya) dura da secoli: Pietro il Grande, il conte Witte, persino Josip Stalin l’hanno perseguita senza successo. La Russia è cambiata ma la sua economia non è mai stata al passo con la modernità. La sclerosi del putinismo sembra indicare che nemmeno questa volta il Paese ce la farà. A meno che non abbiano ragione i sostenitori di Medvedev, l’uomo nuovo di una business class cui delle Pussy Riot non frega un fico.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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