Sarajevo, moschea // Chiara Soban

BOSNIA: Se non è rivendicato, non è attentato

La settimana scorsa la polizia bosniaca ha rilasciato in libertà vigilata 8 degli 11 presunti jihadisti arrestati a dicembre, accusati di voler organizzare, secondo il procuratore coinvolto, “un’attentato da 100 morti” per la notte di Capodanno a Sarajevo. Gli altri tre erano stati liberati già ad inizio gennaio. In meno di un mese le autorità sembrano essere passate dall’aver sventato l’attentato che avrebbe fatto il maggior numero di vittime dal tempo della guerra al rimettere in libertà per insufficienza di prove coloro che lo stavano pianificando.

Il nostro giornale ha preso una posizione forte contro la speculazione sul pericolo jihadista nei Balcani. Il problema c’è ed esiste, ma, se sottovalutarlo può rivelarsi rischioso, lo è anche ingigantirlo a scopi sensazionalistici. Per non ridurre tutto ad uno sterile scontro di opinioni, è necessario affidarsi alle analisi accurate.

Gli atti di violenza bollati come “terrorismo islamico” in Bosnia

Oltre a quello supposto dello scorso dicembre, dal 1997 ad oggi sono stati molti i casi di violenza considerati atti terroristici a matrice jihadista. Si tratta di situazioni molto diverse, spesso affini a casi da cronaca nera o crimine organizzato che ad azioni finalizzate al terrorismo. I principali sono stati:

  • il 12 aprile 1997: durante la visita di Papa Giovanni Paolo II a Sarajevo, la polizia bosniaca scopre e rimuove un ordigno esplosivo posizionato sotto un ponte sul quale avrebbe dovuto passare il convoglio papale. Gli autori di questo gesto, mai identificati, si suppone siano jihadisti;
  • 17 settembre 1998: a Mostar Ovest quattro sospetti jihadisti fanno esplodere una bomba, ferendo 50 persone;
  • 24 dicembre 2002: Muamer Topalović, sedicente neo-salafita originario di Konjic, entra nella casa della famiglia Andelić, profughi croati ritornati a vivere nel villaggio natale di Kostajnica, e ne uccide i tre membri. Viene condannato a 30 anni di carcere;
  • 20 ottobre 2005: la polizia della Federazione arresta quattro bosgnacchi per il possesso di 20 kg di esplosivo e materiale utilizzabile a fini terroristici. Il 21 maggio del 2007 un tribunale statale li giudica colpevoli di progettare attentati terroristici, emanando condanne lievi da sei mesi a otto anni;
  • 27 febbraio 2007: Vedad Hafizović uccide sua madre, colpevole, di essersi rifiutata di pregare con lui. Giudicato mentalmente instabile, viene internato in un istituto psichiatrico;
  • 9 ottobre 2008: Suvan Didić e Amir Ibrahimi fanno detonare una bomba in un centro commerciale di Vitez, uccidendo una persona e ferendone un’altra. Nonostante la stampa e anche alcuni ufficiali collegano l’atto al crimine organizzato, viene indagato come atto terroristico. Didić prende nove anni di carcere, Ibrahimi due;
  • 5 novembre 2009: in una serie di operazioni di polizia svolte a Sarajevo e Bugojno,la polizia arresta tre neo-salafiti, già sotto stretta osservazione delle forze dell’ordine. Giudicati colpevoli di possesso illegale di armi, ottengono pene di quattro anni e mezzo, tre anni e quattro mesi;
  • 27 giugno 2010: un’autobomba esplode di fronte alla stazione di polizia di Bugojno, uccidendo un poliziotto e ferendo altre sei persone. Vengono arrestati il principale sospettato Haris Causevic, membro di una comunità neo-salafita con precedenti penali, e alcuni suoi affiliati. Nel dicembre del 2013 Causevic viene condannato a 45 anni di carcere per attentato terroristico, la più lunga condanna emessa da un tribunale bosniaco per questo capo d’imputazione;
  • 28 ottobre 2011: Mevlid Jasarevic, pre-giudicato, spara con un AK-47 per 40 minuti in direzione dell’ambasciata americana, ferendo un poliziotto. Aveva passato del tempo nella comunità di Gornja Maoča. Il 6 dicembre del 2012 viene condannato a 18 anni di prigione;
  • 27 aprile 2015: il venticinquenne bosgnacco Nerdin Ibrić apre il fuoco contro il commissariato di Zvornik, uccidendo un poliziotto, prima di venire freddato a sua volta. Le indagini sono ancora in corso.
  • 18 novembre 2015: Enes Omeragić entra in una sala scommessa nel quartiere di Rajlovac di Sarajevo e uccide due militari. Uscito, rivolge il fuoco verso un autobus parcheggiato in prossimità, ferendo l’autista, alcuni passeggeri e un militare, con le schegge di vetro infrante dai colpi. Si dirige a casa, dove, assediato dalle forze dell’ordine, si suicida con una bomba a mano. La dinamica suscita numerosi dubbi. Uno dei quali è come potesse sapere il killer che i due militari, in servizio al momento dell’omicidio, si trovassero in quella sala scommesse. Le indagini sono ancora in corso.

Nessuna di queste azioni è mai stata rivendicata da una qualunque fazione jihadista, bosniaca o transnazionale. La rivendicazione è un aspetto centrale del terrorismo, in quanto è necessaria per collegare l’azione violenta alle richieste, o perlomeno alle volontà, di un determinato gruppo, evitando di dilapidare il “capitale di trattativa” acquisito tramite la violenza. L’assenza di rivendicazione permette di derubricare queste azioni a gesti isolati e velleitari di singoli, lupi solitari che agiscono soltanto a nome loro. L’impressione è che le autorità bosniache abbiano la situazione sotto completo controllo, come testimonia anche l’arresto di un sospetto foreign fighter all’aeroporto di Sarajevo sempre la settimana scorsa, ma tendano a voler tenere alto l’allarme terrorismo, utilizzando allo scopo anche casi in cui di terrorismo non si tratta.

Foto: Chiara Soban 

Chi è Simone Benazzo

Triennale in Comunicazione, magistrale in Scienze Internazionali, ora studia al Collegio d'Europa, a Varsavia.

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