TURCHIA: Il processo Ergenekon svela un complotto anti-Erdogan. Ma è la verità?

E’ una questione scivolosa quella di Ergenekon, il processo che ha portato alla condanna di 67 persone colpevoli, secondo i giudici, di avere tramato contro l’attuale governo turco guidato da Recep Tayyip Erdogan al fine di farlo cadere. Una sorta di colpo di Stato soft che avrebbe visto il coinvolgimento di militari tesi a salvaguardare la laicità dello Stato turco contro le derive islamiste del Ak, il partito di Erdogan. Una vicenda che evoca quello “stato profondo”, intreccio tra nazionalismo, laicismo militante, servizi segreti e ambienti criminali, che dal dopoguerra ha influenzato la vita politica turca. La sentenza Ergenekon è arrivata il 5 agosto scorso in un momento delicato per la Turchia, scossa dalle manifestazioni anti-governative che dall’ormai nota piazza Taksim di Istanbul si sono allargate a molte città, scatenando la repressione della polizia che è costata la vita a cinque giovani. Ecco perché Ergenekon è difficile da leggere in modo univoco anche se il coinvolgimento di ambienti criminali non sembra poter essere messo in discussione.

Cos’è Ergenekon

Ergenekon è il nome di una mitica valle tra le montagne dell’Altai, catena montuosa che si estende tra Russia, Mongolia e Cina, di cui sarebbero originarie le popolazioni turcofone. Secondo la leggenda un lupo dal pelo grigio e blu avrebbe spinto i feroci guerrieri a lasciare la regione alla conquista del vasto mondo e li avrebbe guidati fino all’Anatolia. Oggi il mito di Ergenekon ha assunto anche un valore politico irredentista teso alla riunificazione di tutte le popolazioni turcofone in un solo grande stato. Ma Ergenekon è un termine divenuto noto a causa della rete golpista che ne porta il nome.

Una rete golpista di cui si comincia a parlare già nel 1996 quando un incidente stradale avvenuto nei pressi di Susrluk, una cittadina dell’Anatolia centrale, rivela strane amicizie. Nell’auto che andò a schiantarsi contro un camion sedevano Huseyn Kocadağ e Abdullah Catli, morti sul colpo, rispettivamente l’ex capo della polizia di Istanbul e un esponente dei Lupi grigi, gruppo dell’ultranazionalismo dedito al narcotraffico e al terrorismo di stato. Un terzo passeggero, sopravvissuto, era Sedat Bucak, parlamentare all’epoca in carica. Cosa ci facevano questi tre insieme nel bel mezzo dell’Anatolia?

La Gladio turca e i colpi di Stato

Dopo una serie di indagini si scoprì che i tre uomini erano esponenti di un gruppo segreto il quale, attraverso una vera e propria strategia della tensione, alimentava la guerra contro il Pkk (il partito comunista curdo combattente) compiendo attentati in villaggi curdi e attribuendoli al nemico al fine di delegittimarlo. Pratica, questa, che i Lupi grigi attuarono anche contro le opposizioni di matrice marxista non curde. La cosa più interessante fu la scoperta di legami tra questa rete e la kontrgerilla, una sorta di Gladio turca attiva dal secondo dopoguerra e finanziata dagli Stati Uniti al fine di mantenere la Turchia in orbita atlantica contrastando derive marxiste o islamiste.

Questa organizzazione stay-behind agiva spesso di concerto con l’esercito del quale condivideva le finalità: l’esercito turco è infatti il garante della Repubblica fondata nel 1923 da Mustafa Kemal detto Ataturk. L’ideologia kemalista, repubblicana, paternalista e autoritaria, si fondava sul concetto di laicità. Diversamente che per il resto d’Europa, dove laicità è sinonimo di democrazia, in Turchia la laicità è stato il motivo per ben tre colpi di Stato. Ogni qual volta, infatti, i partiti islamici vincevano le elezioni (e ciò accadeva ogni volta fosse loro consentito presentarsi) l’esercito interveniva rovesciando il governo. Ciò è accaduto nel 1960, nel 1971 e nel 1980. Un ultimo colpo di Stato non armato è quello del 1996 quando l’esercito diede un ultimatum al governo guidato dal partito islamico Refah che rassegnò le dimissioni. Il partito venne poi messo al bando e alcuni suoi membri, come l’attuale primo ministro Erdogan, vennero incarcerati.

Lo Stato profondo nell’era Erdogan

Nel complesso penitenziario di Silivri, non lontano da Istanbul, in un clima di tensione, il 5 agosto scorso ha avuto luogo la lettura delle sentenze di prima istanza del processo Ergenekon. Sono ben 275 gli accusati complessivamente in attesa di giudizio: tra i condannati eccellenti, c’è l’ex capo di stato maggiore dell’esercito İlker Başbuğ, a cui è stato inflitto l’ergastolo, e tre parlamentari dell’opposizione che hanno ricevuto pene dai 12 ai 35 anni. Ventuno invece le assoluzioni pronunciate dalla corte.

Dopo cinque anni di processo, i giudici hanno dato sostanzialmente ragione alle tesi della procura, secondo cui Ergenekon, organizzazione segreta ultra-nazionalista composta da ufficiali, politici, accademici, ma anche malavitosi, avrebbe cospirato per rovesciare il governo Erdogan, manipolando i media e organizzando omicidi e attentati per realizzare i propri scopi. Già nel 2010 il processo Balyoz portò alla condanna di sette alti ufficiali dell’esercito che avrebbero ordito una serie di attentati volti a dimostrare la debolezza e l’incapacità del governo Erdogan. Tra gli attentati anche quello a un cacciatorpediniere turco poi fatto ricadere sulla marina greca.

La sentenza rappresenta un successo per il governo, che in questi anni ha lottato con successo per portare l’esercito sotto il controllo del potere civile. Ma c’è chi non la pensa così.

La teoria del doppio complotto

Il quotidiano kemalista Cumhuriyet (La Repubblica) per cui lavora il giornalista Mustafa Balbay condannato a 34 anni e otto mesi di prigione, considera invece il processo “una vendetta politica ordita dall’Akp“.

Sul quotidiano Vatan lo scrittore ed editorialista Zülfü Livanelli, ex detenuto politico ed esule negli anni settanta, denuncia anch’egli un verdetto “che ha colpito un buon numero di persone innocenti, condannate sulla base di testimonianze anonime e affermazioni mai documentate”. Ahmet Sik, giornalista, autore de L’Esercito dell’Imam, libro confiscato e distrutto dalle autorità turche nel 2011, commenta su Linkiesta: “Il processo Ergenekon non è un processo equilibrato ma un processo basato sulla vendetta. Nel processo Ergenekon ci sono colpevoli ma anche tanti innocenti. È un calderone in cui i giudici hanno voluto gettare dentro un po’ tutto. L’assurdità è che esistevano realmente dei tentativi di colpi di stato ma oramai il processo Ergenekon è stato così snaturato che non è più quello che avrebbe dovuto essere. Sono state utilizzate informazioni corrette e complotti reali per altri fini”. Ma quali fini?

Ahmet Sik punta il dito contro la Comunità Gülen, controversa e influente confraternita islamica il cui capo spirituale, Fethullah Gülen risiede in esilio in Pennsylvania dal 1999. I suoi sostenitori vedono il movimento di Gülen come una forma moderna e moderata dell’Islam, ispirata ad una interpretazione liberale e democratica della religione, che può fare da contrappeso all’estremismo islamico. L’idea di Gülen è quella di promuovere un islam politico e liberale capace di imporsi su tutto il mondo musulmano e che veda la Turchia come avanguardia.

I sostenitori della laicità dello stato turco ritengono che il suo sia un tentativo di cancellare la secolarizzazione dello Stato. Dall’altra parte, gli estremisti islamici hanno contestato alcune sue iniziative, come il dialogo interreligioso, giudicandole come “deviazioni” dalla religione islamica. L’appoggio della confraternita di Gülen è stato determinante per il successo elettorale di Erdogan e da più parti si accusa l’Akp di aver aperto le porte ai sostenitori della comunità, reclutati nella polizia, nella magistratura e nella pubblica amministrazione allo scopo di creare una base dirigente fedele al partito.

Le ricadute politiche

Proprio la magistratura “gulenista” avrebbe istituito il processo Ergenekon quale vendetta per le persecuzioni subite dai politici islamici nei decenni precedenti. Questa tesi complottista è assai diffusa tra i detrattori di Erdogan e del suo partito. Un partito che, malgrado la reazione autoritaria alle proteste di piazza Taksim, ha portato la Turchia a livelli di benessere insperati fino al decennio scorso. Il boom economico turco, che si traduce anche in speculazioni edilizie e corruzione, è la ragione principale del successo elettorale di Erdogan. La mancanza di un’opposizione credibile ha fatto il resto. Il Chp, il partito repubblicano fondato da Ataturk, è risultato coinvolto nel processo Ergenekon e alcuni suoi esponenti sono stati condannati. Il Chp rappresenta per molti il vecchio regime, quello dei colpi di Stato, e non sembra una valida alternativa al partito islamico di Erdogan.

Questa pesantissima sentenza, indipendentemente dall’esito dell’appello a cui faranno ricorsi i condannati, segna una svolta negli affari politici in Turchia. Segna la fine del regime kemalista ma segna anche l’inizio di una nuova e trasversale contestazione, dopo i recenti fatti di Gezi Park. Da questa contestazione potrà forse nascere una terza via per la Turchia, né kemalista né islamica? Molto dipenderà da come lo “stato-profondo” (militare, mafioso o confraternale) reagirà alle tensioni che stanno attraversando il paese.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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