SERBIA: La mafia delle curve. Le relazioni pericolose tra hooligans, criminalità e nazionalismo.

di Matteo Zola

Striscioni con la data 1389, anno della Battaglia di Piana dei Merli

Cosa c’è dietro i disordini di Italia-Serbia? C’è davvero la longa manus del boss balcanico Darko Saric dietro la scia di tensione che sta attraversando il Paese? Un complotto intende rovesciare la democrazia e il potere di Belgrado? La mafia degli stadi, tra ultranazionalismo e revisionismo storico.

Gli scontri di martedì sera, 12 ottobre, durante e dopo la partita tra le nazionali di calcio serba e italiana, celano intricati rapporti tra il mondo degli hooligans balcanici, la mafia serba, e gli ambienti ultranazionalisti. Un sottobosco criminale diffuso e capace di ledere la politica estera e diplomatica di Belgrado, che bussa alla porta d’Europa trovandola sempre più chiusa. E c’è chi grida al complotto, indicando nel boss Darko Saric il mandante dei disordini di Marassi. Quel che è certo è che esistono rapporti tra il mondo degli hooligans e quello della mafia balcanica, e i  giovani che dagli spalti lanciavano fumogeni durante la partita sono al contempo vittime e responsabili di un clima di tensione e spaesamento che ha investito (e investe) la Serbia dopo le guerre degli anni Novanta e la caduta del regime di Milosevic.

Giovani senza futuro.

Il mondo della tifoseria serba è composto infatti da giovanissimi, ragazzi cresciuti durante il regime di Milosevic, figli della retorica nazionalista, che si sono poi trovati a vivere le privazioni delle sanzioni internazionali, imposte alla Serbia allo scopo di far diminuire il consenso attorno al dittatore.  Una volta divenuti adolescenti si sono visti cadere in testa le bombe della Nato (non dell’Onu, che misconobbe quell’azione). E dopo la guerra si sono ritrovati ventenni in un Paese senza sbocchi, in preda a una crisi economica senza uscita, colpito da una povertà che nelle campagne ha tratti da terzo mondo, e costantemente frustrato nei sogni di grandeur.

Ecco che allora il riferirsi al sogno nazionalista della Grande Serbia, il vagheggiare quella guerra (perduta) e i suoi eroi-criminali, dà un senso a quel futuro di cui essi si sentono privati. Dal vagheggiare Slobo Milosevic, inneggiare a Mladic, e mettere in pratica la violenza di cui essi sono simboli il passo è breve. Basti dire che per far parte dei gruppi di hooligans sono previsti riti di iniziazione di cui la violenza è il lessico privilegiato. L’omicidio di Brice Taton nel 2009, tifoso ventottenne del Tolosa che aveva seguito la sua squadra durante una trasferta a Belgrado, da parte di un gruppo di “tifosi” serbi, era forse uno di quei riti.

La mafia delle curve.

All’interno degli stadi si sono dunque formati gruppi criminali che si finanziano con il racket spicciolo e il traffico di droga, ma che non disdegnano di svolgere manovalanza per gruppi mafiosi. Questi, dal canto loro, hanno bisogno di molte braccia per le loro attività criminali, e nelle curve arruolano milizie con le quali, al momento giusto, attentare all’ordine costituzionale del Paese come nel caso dell’omicidio del primo ministro Zoran Djindjic, nel 2003, che per primo cercò di eradicare la “mafia delle curve”.

Va ricordato che la mafia serba fu al servizio delle truppe paramilitari serbe durante la guerra, i suoi esponenti –fedeli a Milosevic, grazie a cui prosperarono– non intendono ora certo favorire un nuovo corso democratico in Serbia.  Anche dal mondo del calcio venne il sostegno attivo alla guerra di Milosevic. Zeliko Raznatovic, detto Arkan, storico capo ultras dello Stella Rossa di Belgrado, reclutò proprio tra i suoi hooligans i miliziani che sarebbero poi diventati le  sanguinarie “Tigri”, attive in Bosnia e Kosovo. In tempi più recenti gli hooligans dettero fuoco all’ambasciata americana quando, nel 2008, fu dichiarato l’indipendenza del Kosovo. Risulta evidente quindi come il tifo organizzato in Serbia sia al servizio del crimine e di gruppi politico-mafiosi dediti allo squassamento della fragile democrazia.

Darko Saric e la teoria del complotto.

Dietro ai disordini di Marassi c’è dunque molto più che una banda di hooligans. L’intento, secondo il Ministro della Giustizia serbo, Slobodan Homen, è quello di ostacolare l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea, arrivando a parlare di un:  “complotto di chi vuole mantenere il monopolio dei traffici e si oppone a uno stato più forte”. A tal proposito si è fatto il nome di Darko Saric, il superboss balcanico, capace di unire i clan mafiosi allo sbando dopo la guerra, e di creare un impero fondato sul narcotraffico. Che Saric sia realmente dietro ai disordini, è difficile dirlo.

Il dubbio che però ci sia qualcuno intenzionato a destabilizzare il Paese viene incrociando le date: 10 ottobre, Gay Pride e primo assalto degli ultranazionalisti; 11 ottobre, Hillary Clinton in visita a Belgrado dice: «Bisognerebbe accelerare le pratiche per l’ingresso della Serbia nell’Ue»; 12 ottobre, gli hooligan fanno sospendere la partita Italia-Serbia; 25 ottobre in programma c’è la riunione dei ministri degli esteri per discutere dell’ingresso della Serbia nell’Unione.

Ultranazionalismo e revisionismo storico.

Piuttosto che Saric, è probabile che dietro al clima di tensione che attraversa la Serbia ci sia gente come Mladen Obradovic, leader di Obraz, un’organizzazione ultranazionalista caratterizzata dal fondamentalismo religioso di matrice ortodossa. Obradovic è protetto da molte cosche e foraggiato da partiti estremisti russi come Pamyat, anch’esso caratterizzato da un’ideologia ultranazionalista cristiano-ortodossa.

Fuori e dentro gli stadi opera una galassia di movimenti nazionalisti, fondamentalisti, criminali, mafiosi, neonazisti. E’ il caso di Movimento 1389, che prende il nome dall’anno in cui si  svolse la Battaglia di Piana dei Merli, nell’attuale Kosovo, tra i principati serbi e gli ottomani. Quella battaglia è il mito fondativo della nazione serba ma è oggi strumento retorico-ideologico in mano agli ultranazionalisti che ne hanno pervertito il valore e il significato. Sull’avambraccio di Ivan Bogdan, capo ultrà arrestato a Marassi, un tatuaggio riportava proprio quella data: 1389. Nella ricorrenza dei 600 anni da quella battaglia, Slobodan Milosevic fece dell’evento un simbolo della rivalsa che era necessario prendersi sugli albanesi del Kosovo, inaugurando così una persecuzione che sconfinò nella pulizia etnica. Albanesi che nulla c’entravano in quel 1389 se non come alleati dei serbi. I principi albanesi, allora cattolici, combatterono accanto a Lazar Hrebelianovic e ai serbi, a Tvrtko e ai bosniaci, al principe valacco Mircea cel Batran (il Vecchio). Uno scontro che vide uniti i popoli dei Balcani e che oggi è simbolo di una divisone.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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