Il Meccanismo residuale del Tribunale Penale Internazionale l’ex-Jugoslavia (ICTY) metterà la parola fine al processo contro Radovan Karadzic con la sentenza d’appello attesa per il prossimo mercoledì 20 marzo all’Aja, in Olanda. Appello richiesto sia da dalla procura che da Karadzic, quest’ultimo in un documento articolato in ben 50 punti. A distanza di 3 anni dalla conclusione del processo di primo grado e, soprattutto, ad un quarto di secolo dai fatti contestati, si avrà, dunque, la parola definitiva sul percorso giudiziario di uno dei protagonisti principali delle vicende che sconvolsero la Bosnia Erzegovina negli anni ’90.
Con la fine del processo Karadzic, l’unico compito del meccanismo residuale sarà il processo d’appello a Ratko Mladic, già condannato all’ergastolo in primo grado per genocidio. La sentenza Mladic è attesa entro fine 2019.
La sentenza di primo grado
La sentenza di primo grado nel caso Karadzic, arrivata al termine di un processo durato ben sette anni, comminava al presidente dell’autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina 40 anni di prigione per una serie pesantissima di crimini di guerra e contro l’umanità: persecuzioni, stermini, massacri, attacchi indiscriminati su civili e diffusione di uno stato di terrore. Atrocità commesse tra le sette municipalità di Bratunac, Foca, Kljuc, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik, soprattutto nel 1992, e nel corso del lunghissimo assedio perpetrato ai danni della capitale bosniaca, Sarajevo. Ma, soprattutto, Karadzic è stato condannato per il genocidio di Srebrenica, del luglio 1995, quando fu il mandante politico della messa a morte di oltre 8000 uomini e ragazzi, con il chiaro intento, secondo le parole del giudice sudcoreano O-Gon Kwon, di “rimuovere permanentemente la presenza di bosniaci musulmani da Srebrenica”. Genocidio, parola che torna a riecheggiare in Europa settant’anni dopo l’Olocausto nazista.
Un verdetto di primo grado che ha scontentato tutti
Ma la sentenza di primo grado ha anche, per ragioni diametralmente opposte, scontentato tutti. Ha scontentato, ovviamente, il diretto interessato che per bocca del proprio legale, Peter Robinson, aveva manifestato fin da subito l’intenzione di ricorrere in appello dichiarandosi “deluso e stupito per essere stato condannato per deduzione piuttosto che sulla base di prove”. Ma ha scontentato anche la procura in ragione, soprattutto, del mancato riconoscimento da parte del tribunale dell’accusa di genocidio per i fatti relativi alle sette municipalità (unico capo d’accusa caduto sugli undici complessivi): per questi casi il tribunale dell’Aja ha ritenuto insufficienti le prove che ci fosse stata l’effettiva intenzione di sterminare parzialmente o del tutto le comunità non serbe, e quindi di commettere genocidio.
Stessa dicotomia che, ai margini del processo, ha visto schierarsi, da una parte, le associazioni delle vittime come le “Donne e Madri di Srebrenica” che l’hanno reputata troppo clemente e non congruente alla gravità dei fatti e, dall’altra, i governi serbo e russo: con il primo che ha parlato di “giustizia selettiva” lamentando il fatto che l’ICTY si sarebbe occupato solo dei crimini condotti dai serbi e il secondo che l’ha bollata esplicitamente come “sentenza politica”.
L’attesa della sentenza
La sentenza d’appello dirà se Radovan Karadzic ha qualche chance di finire i propri anni fuori di prigione. In caso di buona condotta, infatti, le regole dell’ICTY prevedono che i condannati possano godere di una riduzione di pena di un terzo: i 40 anni inflitti al settantatreenne Karadzic (se confermati) potrebbero dunque diventare “solo” ventisette, undici dei quali già scontati. Potremmo quindi nel 2035 vedere Karadzic varcare da libero le porte della sua cella e, magari, tornare a casa dove molti, ancora oggi, lo acclamano come un eroe.
Ma non è solo questo aspetto a caricare di significato, anche simbolico, l’attesa della sentenza che i cinque giudici della corte d’appello dovranno emettere mercoledì prossimo. Sono in molti ad augurarsi che l’unico capo d’accusa caduto venga alla fine riconosciuto e che lo scempio che ha avuto luogo a Bratunac, Foca, Kljuc, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik sia, infine, definito come genocidio.
Per il momento sono i numeri del censimento del 2013 raffrontati a quello ante-guerra a testimoniare che laddove i bosgnacchi erano maggioranza sono oggi minoranza: il caso più emblematico a Foca dove i bosgnacchi rappresentavano il 52% della popolazione nel 1991 e sono oggi il 7%. Numeri che sono già storia, e che nessuna sentenza potrà cambiare.
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