CULTURA: Ricreare l’URSS e viverci dentro, ecco il Truman Show sovietico

Fino al 17 febbraio 2019 nel centro di Parigi sarà possibile visitare DAU – progetto cinematografico “immersivo”, “opera totale” del regista russo Il’ja Khržanovskij che qualcuno ha definito il “Truman Show” sovietico. Solo che in DAU non c’è finzione – o meglio, il limite tra la finzione e la realtà (anche violenta e misogina) è oltremodo labile.

Finanziata principalmente da Sergej Adonjev, magnate delle telecomunicazioni russo, questa co-produzione russo-europea dal budget faraonico ha richiesto oltre dieci anni per essere (quasi) portata a termine. Per far luce sul contenuto e sulle polemiche che hanno accompagnato il progetto, abbiamo deciso di “vivere l’esperienza DAU” per 6 ore per darne un’opinione informata. Quello che abbiamo visto non ci è piaciuto per niente.

“Ricreare l’Unione Sovietica”

Nato a Mosca nel 1975, Khržanovskij non godeva di grande notorietà prima di iniziare a lavorare su DAU, progetto per il quale viene ora osannato come “regista-demiurgo” che avrebbe “ricreato l’URSS”.

Nel 2006, Khržanovskij concepisce l’idea di un biopic sulla figura di Lev Landau, scienziato sovietico vincitore nel 1962 del Premio Nobel per la fisica. Più che le scoperte di Landau, fu probabilmente la sua biografia ad affascinare Khržanovskij. Nel 1938 Landau fu arrestato come “nemico del popolo” per aver equiparato il comunismo al fascismo; uscì dalla Lubjanka dopo un anno grazie all’intercessione presso Stalin dello scienziato Pjotr Kapica. Landau era anche noto per le sue idee libertine: sembrerebbe che lui e sua moglie Kora vivessero in una relazione aperta chiamata “patto coniugale di non aggressione”.

L’idea originale si trasforma presto in qualcosa di molto più ambizioso: Khržanovskij decide di ricreare fuori dalla città ucraina di Charkiv un Istituto sovietico di fisica teorica. Questo diventa un vero e proprio “terreno da gioco artistico e psicologico su vasta scala” per Khržanovskij, che tra il 2009 e il 2011 lo popola di oltre 400 persone. La maggior parte dei “partecipanti” a questa sperimentazione top secret era gente comune, pagata per fare il proprio lavoro. Nel cast vi è una sola vera attrice, Radmila Ščegoleva, che impersona la moglie di Landau. Anche star del mondo artistico e scientifico hanno partecipato al progetto: il premio Nobel David Gross, l’artista Marina Abramović, il direttore d’orchestra Teodor Currentzis (che nel film impersona il fisico Landau, ovvero Dau), e tra gli italiani il fisico Carlo Rovelli e il regista Romeo Castellucci.

Per periodi variabili queste persone hanno vissuto in una realtà parallela, una ricostruzione meticolosa dell’Unione Sovietica che seguiva un proprio tempo, dal 1938 al 1968. A detta degli organizzatori, non c’era un copione: gli abitanti vivevano sul set interagendo, lavorando e svagandosi dentro al tessuto dell’epoca. Il sito ufficiale del progetto parla di “un mondo nuovo e a sé stante, che funzionava secondo le proprie regole”. Il risultato sono 700 ore di filmati, condensate in 13 lungometraggi, 2.5 milioni di immagini e 8000 ore di audio. In futuro è anche prevista l’uscita di una serie TV, di un documentario e sembrerebbe anche del film originale, nei cinema.

L’esperienza DAU a Parigi

Dopo la cancellazione della première di Berlino, DAU è stato presentato il 24 gennaio a Parigi. Chi desideri vivere l’esperienza DAU deve comprare online un “visto” il cui prezzo oscilla tra i 35 (soggiorno di 6 ore) e 150 € (pass illimitato), oltre a completare un questionario (che include domande sulla propria sessualità) e che servirebbe all’elaborazione di un percorso personalizzato. Più di una settimana dopo l’apertura metà delle installazioni sono però ancora chiuse al pubblico, e l’organizzazione è disfunzionale: secondo un addetto alla sicurezza, le richieste di rimborso sono all’ordine del giorno.

A DAU si può accedere solo dopo aver ritirato il visto, lasciato il proprio cellulare in un’apposita cassetta di sicurezza, e passato i controlli. L’interno del Théȃtre de la Ville, aperto 24 ore su 24, ricrea un’atmosfera da “lavori in corso”. Orientarsi tra i vari spazi del teatro (sale dai nomi pseudo-poetici come “Motherhood”, “Animal”, “Communism”, “Betrayal”) è difficile e non vengono offerte spiegazioni. Statue di cera iperrealiste vestite come in epoca sovietica si confondono in modo inquietante con i visitatori: parigini, russi espatriati, qualcuno è venuto da Berlino per non perdersi l’evento, altri hanno viaggiato direttamente dalla Russia, dove DAU sarà con ogni probabilità vietato.

Visitiamo una dettagliata (quanto inutile?) ricostruzione di interni di abitazioni sovietiche, poi beviamo una vodka al bar dove si serve cibo da stolovaja sovietica in ciotole di latta (i veri nostalgici possono comprarle in un apposito negozio, insieme a carne in scatola e altri souvenir dall’estetica comunista). Riusciamo finalmente a vedere 4 dei 13 lungometraggi: non c’è modo di capire in che ordine si collochino, e ci sono lunghi vuoti tra una proiezione e l’altra. Siamo spettatori di scene di vita familiare e intima, liti e crisi isteriche, rapporti sessuali, soprusi tra colleghe, dibattiti filosofici e momenti di sperimentazione scientifica (anche con neonati affetti da sindrome di Down). I film sono a volte noiosi, a volte emotivamente pesanti, a volte divertenti. Soprattutto danno fastidio: ad ogni momento viene da chiedersi dove sia il confine tra verità e finzione. E’ il regista a dare gli ordini? Le persone sanno di essere riprese? Fino a che punto sono loro stesse a volersi “mettere in scena” recitando parti che implicano violenza, crudeltà, o sottomissione? Qual è lo scopo degli esperimenti?

Nell’ultima scena di uno dei film, il capo del KGB ordina ad uno dei membri di un “gruppo sperimentale” non meglio definito di sbarazzarsi degli scienziati “alcolisti e depravati”. Assistiamo sullo schermo alla distruzione dell’Istituto, con un gruppo di giovani dalla testa rasata che armati di martelli e spranghe fanno a pezzi ogni cosa, fino a compiere un (finto) massacro del personale. Scopriremo in seguito che è così che il set di DAU fu chiuso nel 2011: il regista avrebbe assoldato un gruppo di veri neonazisti russi per distruggere fisicamente l’Istituto.

In una sala chiamata “History” ci sono delle cabine argentate in cui è possibile guardare delle scene tagliate del film. E’ lì che vengono fuori con più intensità gli interrogativi di cui sopra: quanta finzione c’è nella scena in cui 3 agenti dei servizi segreti torturano una cameriera accusandola di essere un “agente straniero” al soldo di una rete di spie americane, minacciandola di morte fino ad estorcerle tra le lacrime una falsa confessione? In un’altra scena, una scienziata dell’Istituto viene rinchiusa in prigione e umiliata dal carceriere che la costringe a strisciare carponi nella cella, tirandola per i capelli e prendendola a calci se si rifiuta di avanzare. E quanta spontaneità c’è in certe scene di sesso non simulato (soprattutto tra donne) che sembrano essere costruite a tavolino per soddisfare le fantasie del regista?

L’estetizzazione del totalitarismo

Nel 2011 un giornalista di GQ era riuscito a trascorrere qualche giorno sul set di DAU. Pur celata dietro parole di ammirazione per il carattere grandioso e provocatorio del progetto, l’articolo fornisce un’immagine precisa della megalomania di Khržanovskij. Viene descritto un vero e proprio panopticon Foucaultiano in cui i partecipanti sono filmati non solo dal regista, ma anche da miriadi di telecamere nascoste, e ascoltati da microfoni installati nei lampadari, proprio come ai tempi dell’URSS. Non è chiaro fino a che punto i partecipanti ne fossero coscienti. Si parla dell’esistenza di un sistema di multe per impedire ai partecipanti al progetto di tenere con sé i cellulari e di usare anacronismi nelle conversazioni (no Google, sì Pravda), ma soprattutto di un sistema di delazioni attraverso il quale i partecipanti potevano denunciare la cattiva condotta degli altri presso Khržanovskij stesso.

L’articolo ci illumina inoltre sulle modalità di reclutamento: le partecipanti erano scelte unicamente in base ai gusti personali di Khržanovskij e venivano licenziate su due piedi se lo contrariavano o rifiutavano di ubbidirgli. Alcune partecipanti hanno dichiarato di essere state affette da disturbo post-traumatico da stress a causa delle manipolazioni, della violenza e della misoginia subite. I partecipanti venivano inoltre pagati per il loro lavoro (vero) con la moneta del tempo. Un ex membro del cast avrebbe dichiarato “E’ quasi schiavitù, ma Ilja era riuscito a convincerci che facevamo parte di qualcosa di veramente grande”. Suona familiare?

Il mistero attorno alle riprese, il marketing del film, le foto in bianco e nero di questo microcosmo sovietico rendono tutto molto intrigante, e l’eccitazione generatasi attorno all’”evento che sta facendo impazzire Parigi” è reale. Ma basta poco per rendersi conto di ciò che “ricreare l’URSS” significa veramente in DAU: non solo riprodurre l’architettura, l’arredamento e i vestiti, ma anche trasformare il set in una comunità totalitaria in cui Khržanovskij ha il pieno controllo sulle vite degli individui partecipanti al progetto. In esso vigono lo stesso terrore, le stesse relazioni di potere e di violenza che in epoca sovietica – che poi vengono vendute (senza sconti) ad un pubblico curioso di vivere il brivido della dittatura. La critica (se vi era tale volontà) o la messa a nudo del totalitarismo sembrano essersi ridotte alla sua imitazione patinata.

Alla fin fine, sebbene qualcuno in Italia parli di “riferimento culturale altissimo” del progetto, l’impressione che si ha uscendo dal Théȃtre de la Ville è puramente quella di aver assistito a un reality show dalla dubbia etica. E come ci ricorda Libération, “DAU non gioca unicamente con dei trucchi sovietici. Utilizza anche delle vecchie astuzie capitaliste. Come la paura di perdersi qualcosa”.

Immagine: screenshot da YouTube

Chi è Laura Luciani

Nata a Civitanova Marche, è dottoranda in scienze politiche presso la Ghent University (Belgio), con una ricerca sulle politiche dell'Unione europea per la promozione dei diritti umani e il sostegno alla società civile nel Caucaso meridionale. Oltre a questi temi, si interessa di spazio post-sovietico in generale, di femminismo e questioni di genere, e a volte di politiche linguistiche. E' stata co-autrice del programma "Kiosk" di Radio Beckwith.

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